Cesena
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dubbi, domande e speranze

"Caro Antonio, i giorni sono precipitati", la lettera aperta di don Filippo Cappelli con alcuni studente del liceo "Monti"

Scrive un insegnante di religione. "Ho l’impressione di aver già accumulato un doloroso rimando su tante, troppe cose, con te, e non vorrei aggiungere dolore ad angoscia. Ma se è vero che il silenzio protegge, è anche vero che la parola cura""

"Caro Antonio, i giorni sono precipitati", la lettera aperta di don Filippo Cappelli con alcuni studente del liceo "Monti"

Pubblichiamo la lettera aperta che don Filippo Cappelli, parroco a Budrio di Longiano e insegnate di religione al liceo Monti (non aveva tra i suoi studenti il giovane che si è tolto la vita), ha scritto assieme ad alcuni suoi studenti dopo aver appreso della tragica morte del ragazzo di V avvenuta venerdì scorso. La lettera è pubblicata a pagina 4 del nostro giornale in edicola da ieri, assieme ad altri interventi con i quali abbiamo cercato, su un tema così dirompente, di aprire uno spazio di dialogo, di confronto e di condivisione.

Caro Antonio,

mentre ti scrivo c’è un po’ di vento, ma è più una brezza leggera. Non rovescia i vasi, non spoglia le piante. Così spero che sia quel vento a raccogliere le parole, anche quelle che resteranno nell’inchiostro senza trovare la luce, per raggiungerti. O magari perdersi per sempre. Se dovessi scegliere, preferirei che si perdessero piuttosto che raggiungerti in ritardo. Ho l’impressione di aver già accumulato un doloroso rimando su tante, troppe cose, con te, e non vorrei aggiungere dolore ad angoscia. Si pensa sempre di avere una smisurata quantità di tempo disponibile, per tutto, e invece questa volta i giorni sono precipitati, le ore scivolate come quando si guarda un buon film e mi sono trovato a mani vuote, in uno spazio angusto e un cerchio vuoto.

Forse abbiamo tardato un po’ tutti, con te. Comunque, infilo il cappuccio della Bic in bocca e provo a pensare. Scrivere. Magari servirà a fare chiarezza, e anche se non eri uno studente delle mie classi provo a cercare nella memoria gli sguardi incrociati nel corridoio o alla macchina del caffè. Provo a ricordare il tuo volto fra centinaia di altri volti sulle scale, provo a capire. In ogni modo, ti scrivo. Ti scrivo in questo pazzo mondo che stupisce sempre di più per la sua follia: folle il tempo, che traveste in un carnevale tragico il freddo di febbraio con i colori di maggio. Pazzo questo Cesena, che dopo una metà campionato fatta di lacrime e sangue sembra diventata la squadra che tutti vorrebbero. Pazzo io, che invece di continuare le benedizioni delle famiglie nella mia bella Budrio mi attardo a scrivere lettere. E pazzo un po’ anche tu, Antonio, che invece di lasciarti cullare e trascinare dalla corrente calda di questi giorni hai preferito aggredirla, gettandoti contro con tutta la forza che avevi nei piedi e tutta la rabbia accumulata nei polmoni.

La fatica di trovare parole è evidente: quando un gesto, un atto, è tanto definitivo restano solo tante domande e poche risposte. Ho trascorso questi giorni di scuola a discuterne con i tuoi compagni. Non è servito a capire, e neppure a lenire, però è accaduto qualcosa che mancava. Nelle classi, negli autobus del ritorno a casa, nei bar con cappuccino e brioche al mattino, forse ciò che è mancata è stata proprio la parola. La parola vera, fatta di carne e forgiata dalla sincerità, a rompere il silenzio che troppo spesso riempiamo di rumore. Tornare a parlare, ricominciare ora, è difficile quando tutto ti lascia senza parole. Ma se è vero che il silenzio protegge è anche vero che la parola cura. E non riesco a pensare a nulla di più giusto. Come Chiara (i nomi sono di fantasia) che al confronto con il dramma si fa forza per trattenere le lacrime e rabbiosa scrive su un foglio: “quello che faccio lo faccio per me, lo so che faccio un errore, e so che tante volte mi avete ripetuto che la vita è bella, e a me questa frase mi suonava sempre falsa, non perché la vita fosse brutta, semplicemente perché penso che non abbiamo diritto di dire niente sulla vita, non capisco perché solo noi dobbiamo pronunciare giudizi sulla nostra vita o su quella degli altri. Io ho fatto tante cose, Anto ha fatto la sua, non ho altro da aggiungere e spero che anche voi non abbiate altro da aggiungere”. Oppure Francesco che invece pare del tutto calmo e ponderato: “Tutti abbiamo una vita normale, perfettamente normali, noi che restiamo siamo i normali. Un giorno saremo presi dal sonno e ci addormenteremo, ma questo ad Antonio non è concesso. E mi pare strano, triste. Mi addormento pensando al domani, anche se non so se ci sarà davvero. Però mi addormento sorridendo, cercando la vita del risveglio, con tutta la smania di fare cose ancora più belle senza sapere se poi la cosa bella, l’unica che potevamo fare, l’avevamo già fatta. Antonio davanti a sé poco prima di addormentarsi ha avuto solo la morte…”.

La parola del senso e della speranza arriva proprio da Elisa: “Certo è che Antonio rimarrà. Resterà non solo nella memoria, ma anche nella scuola e in quel lento e penoso salire le scale per raggiungere le classi di questi giorni. Sarà diverso studiare. Come per Antonio, che in matematica magari studiava i limiti senza riuscire a capire che sono più importanti i limiti che ci mette la vita, più che quelli delle funzioni. E non è riuscito a controllarli, a gestirli. Non saremo quello che vogliamo ma, Gesù, chi lo è? Chi è che non si porta dentro un pezzo di nero che rischia di far marcire tutto? E allora meglio guardare in faccia la Gorgone, a costo di rimanere impietriti. Parlarne, perdonare magari, lenire il dolore e accompagnarlo sulle vie che ci sono date dalla vita”.

Sono uscito da scuola anche oggi, Antonio, come mille altre volte. Ora il vento è scomparso, ma ha portato un po’ di pioggia. Non so cosa preferire, adesso. Però forse hanno ragione i tuoi compagni. L’importante è affrontare e opporre resistenza come si può a quel ’pezzo di nero’ che ogni tanto si fa sentire, e impedirgli di crescere e portare le sue bandiere nere in giro per il corpo. E addirittura provare a dare un senso anche a quello, e a ciò che siamo. Provare a farlo, dico io, con quel Gesù, lanciato come un grido senza davvero pensarlo, da Elisa. Quello stesso Gesù che ha promesso di salvarci ogni giorno dalla morte. Anche quelle difficili: la mia, la nostra. E, oggi, la più faticosa. La tua.

Ciao, Antonio.

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