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Teatro

Con Gifuni torna la voce di Aldo Moro al “Bonci”

Il pubblico, non numerosissimo, ieri e sabato ha salutato lo spettacolo con forti applausi indirizzati al valido interprete

Con il vostro irridente silenzio foto di Musacchio, Ianniello & Pasquali

Sabato 15 e domenica 16 al “Bonci” è andato in scena lo spettacolo ideato da Fabrizio Gifuni, talentuoso interprete che ha espresso le sue capacità attraverso televisione, cinema e teatro. Per l'occasione, Gifuni ha deciso di ritornare a un punto fondamentale della moderna storia d'Italia: quei 55 giorni, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, in cui lo statista democristiano Aldo Moro venne sequestrato dalle Brigate Rosse e poi ucciso. Un punto di snodo della storia d'Italia, un evento tragico oscurato da un gran numero di tendenziose falsificazioni, in un momento in cui, per la prima volta nella storia della Penisola, si sarebbe potuta superare quell'impossibilità di alternanza democratica, che dal 1948 aveva relegato il Partito comunista italiano, il più grande dell'Europa occidentale, alla perenne opposizione a livello nazionale. Portare, sia pure in modo lento e meditato, il Pci alla gestione del potere avrebbe rappresentato l'occasione per una sua definitiva trasformazione, probabilmente separato definitivamente il Pci dall'Unione sovietica e aperto nuove prospettive. Tutto questo non avvenne, e solo ora intravvediamo l'insieme di interessi nazionali e internazionali che portarono alla tragica fine del capo democristiano. Di quel momento cupo della moderna storia d'Italia, oltre al senso di scoramento e impotenza di chi ricorda quei terribili giorni, rimangono le lettere e il memoriale che Aldo Moro scrisse durante la sua prigionia. È da quei testi che parte il lavoro di drammaturgia di Fabrizio Gifuni.

La scena è praticamente vuota, eccetto che per un tavolino e una sedia. Accanto a questi due oggetti, un microfono. A terra, fogli di carta. Lo sfondo cambia colore a seconda dei vari momenti evocati dai testi di Moro, nell'arco di quei 55 giorni. Prima di iniziare lo spettacolo, Gifuni introduce il pubblico a quel particolare momento della storia d'Italia, avvisando che quello che si vedrà è un primo esperimento drammaturgico. Da una parte, ha perfettamente ragione nell'affermare che le lettere e il memoriale di Moro dovrebbero essere parte integrante della memoria collettiva italiana, testi da tenere sempre sotto mano per riflettere sul rapporto fra uomo e potere, uomo e famiglia, uomo e religione; dall'altra, occorre riconoscere che la forma che attualmente ha lo spettacolo è molto più simile a un recital che a un vero e proprio testo teatrale. È teatro, ad esempio, la scelta di fare apparire, alla fine, la fotografia dei potenti democristiani inginocchiati durante il funerale di Moro, mentre l'attore che ha impersonato Moro osserva, fra attonito e ironico, l'immagine. Non è teatro, ma recital, la lettura dei testi di Moro a un microfono, quando l'unico elemento di differenziazione è una variazione delle luci sullo sfondo. Sarebbe opportuna una trasformazione più teatrale di questo materiale così importante, tragicamente poetico e testimonianza di un'umanità ricca e sofferente.

Niente da dire sul lavoro di Gifuni sulla lettura dei testi: un flusso di coscienza di due ore, in cui da una lettera si passa ad un'altra, dal memoriale a un'altra lettera, e così via, un vero tour de force che può reggere solo un attore con grandi doti tecniche. Non c'è solo la tecnica, però: c'è anche l'emozione, il sentimento, la passione.

Il pubblico, non numerosissimo, ha ricambiato, con forti applausi e ripetute chiamate alla ribalta il valido interprete.

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