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Coronavirus. Infermiera 25enne da una clinica estetica di Milano al Covid del "Bufalini". "Tutte le notti sogno il reparto"

"Ero a conoscenza di ciò che si può sapere attraverso i telegiornali o dai colleghi - dice la giovane Giorgia - ma finché non si entra in reparto uno non si può rendere conto di quel che può essere. Quando posso, mi fermo due minuti in più per fare un po’ di compagnia ai pazienti che sono soli”

Foto agensir.it

Da una clinica di chirurgia estetica di Milano al reparto Covid del “Bufalini” il salto è enorme. È quanto sta vivendo in queste settimane l’infermiera Giorgia Diprè, 25 anni ad agosto, rientrata a Cesena il 14 marzo ed entrata in servizio al nosocomio cesenate il 27 dello scorso mese. “Ho fatto due settimane di quarantena assieme a mio fratello che mi è venuto a prendere a Milano. Poi, svolti tutti gli esami di prassi, sono entrata nel reparto Covid (40 posti letto, di cui 10 di sub-intensiva), quella che era l’ex Medicina interna, diretto dal dottor Praticò”, dice Giorgia raggiunta al telefono mentre si gode qualche ora di stacco dall’intenso lavoro di questi giorni non facili per nessuno.

“In un attimo è cambiato tutto: vita, casa, città e soprattutto il lavoro. Era a Milano da due anni e mezzo. L’impatto è stato forte, in particolare per i pazienti con i quali abbiamo a che fare. Ero a conoscenza di ciò che si può sapere attraverso i telegiornali o dai colleghi, ma finché non si entra in reparto uno non si può rendere conto di quel che può essere”.

“Ho incontrato anche pazienti giovani – prosegue Giorgia - dell’età dei miei genitori e anche più giovani di loro. E con loro mi sono immedesimata. Quello che si vive lì dentro non è di certo semplice. E non lo è neppure quando si esce. Adesso non abito con la mia famiglia. La mia nonna è andata con i miei e io vivo nell’appartamento lasciato libero dalla nonna. Era l’unico modo per stare lontani. Ci vediamo in giardino. Per fortuna che abbiamo quello perché quando torno a casa ho bisogno di stare un po’ all’aria aperta”.

In reparto siamo superprotetti. Mi sento tranquilla. Siamo super tutelati, ma non si mai. Ho saputo che ci sono diversi colleghi positivi e alcuni reparti potrebbero essere chiusi per questo motivo. Anche con i pazienti abbiamo un rapporto del tutto tranquillo dal punto di vista del possibile contagio. Rimane sempre, comunque, un po’ di dubbio che uno si porta dietro”.

E i pazienti come vi vedono? “Ti prendono come punto di riferimento. Come l’unico collegamento con il mondo esterno. Hanno desiderio di un rapporto personale. Le visiere che indossiamo impediscono spesso di comunicare, ma ugualmente cerchiamo di mantenere un certo rapporto umano con tutti. Quando posso, mi fermo due minuti in più per fare un po’ di compagnia ai pazienti che lì sono soli”.

E chi muore? “Chi muore, muore da solo. E posso assicurare che è bruttissimo. Questo fatto lascia senza parole. È un altro lato terribile di questo virus. Il medico avvisa i familiari, ma poi le salme vengono indirizzate per essere subito cremate, senza che più nessuno le possa vedere. Dopo un ricovero vissuto tutto in solitudine, anche alla fine quando qualcuno sta male si ritrova sempre e ancora da solo. Un fatto agghiacciante. Allora cerchi di stare loro vicino. Fai fare una videochiamata con le famiglie per un ultimo saluto, se è possibile. Ma se non si può, non si fa neppure quella. Si tratta di una solitudine che non si riesce a descrivere”.

“I pazienti vivono da soli con il virus e con noi operatori. E i compagni di stanza, senza poter uscire dalla stanza, comunque. Mi rendo conto che a parole non riesco a rendere giustizia di quel che si vive lì dentro. Neppure ora riesco a trovare le parole adatte. È tosta”.

E a casa? “Quando torno a casa ripenso e rivivo il percorso che ho appena fatto. La svestizione e tutto il protocollo che dobbiamo rispettare. Di notte sogno il reparto, tutte le notti, finora. Vivo anche l’ansia di essere una delle ultime arrivate, con il sacro terrore di sbagliare. Mi ripeto e ripasso le procedure. In poche parole: quando esco da lì ancora non riesco a staccare. Parlare con i miei mi aiuta molto, anche se prima preferisco stare un po’ da sola”.

Alla fine, quindi, Giorgia, la testa è sempre nel reparto Covid? “Sì, poi tutti mi chiedono ed è un continuo raccontare che mi fa anche bene, così come una parola di conforto. Poi c’è anche la pressione dei mass media e aumenta la responsabilità che si vive. Io cerco sempre di entrare in reparto con il sorriso che i pazienti riconoscono dagli occhi, anche perché faccio il lavoro che ho scelto e che mi piace, con o senza virus. E cerco di farlo al meglio, come sempre. Si può correre il rischio di sentirsi protagonisti, ma i veri protagonisti sono e rimangono i pazienti”.

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