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Coronavirus. Romano Colozzi riflette sull'esperienza della malattia: "O Gesù dà un senso concreto al dolore dei miei famigliari e amici e mio, oppure tutto è una grande illusione"

"Ho paura di non vedervi più.....non mi sento ancora pronto - ha scritto alla famiglia -. In questa esperienza, che si è dipanata nell'arco di circa 40 giorni, con l'alternarsi di momenti di speranza, è inevitabile porsi le domande di sempre: perchè a me? A chi o a cosa serve che io soffra? Perchè Tu, o Dio, che puoi tutto, permetti il dolore?"

Coronavirus. Romano Colozzi riflette sull'esperienza della malattia: "O Gesù dà un senso concreto al dolore dei miei famigliari e amici e mio, opp...

Pubblichiamo di seguito la testimonianza che Romano Colozzi ha portato giovedì della scorsa settimana durante l'assemblea del movimento di Comunione e liberazione tenutasi online sulla piattaforma Zoom. Ai partecipanti era stato chiesto di partire dalla riflessione sul libro "Generare tracce nella storia del mondo" di don Luigi Giussani e su una lettera ai membri di Cl scritta da don Julian Carron all'inizio della pandemia.

Colozzi, noto in città e oltre per avere ricoperto ruoli politici di primissimo piano, tra cui quello di consigliere regionale in Emilia-Romagna poi per lunghi anni nella giunta della Regione Lombardia, è stato ammalato di Coronavirus e ha trascorso circa un mese e mezzo ricoverato all'ospedale "Bufalini". Di seguito le sue parole.

"Che cosa ci strappa dal nulla?". Mi era sembrato che questa domanda, con cui si chiudeva la lettera del 12 marzo di Carròn, non riguardasse molto me: io non sono nichilista, credo in dei valori, so che la vita ha uno scopo, credo anche che la morte non sia la parola definitiva sulla vita e dunque in che senso devo essere strappato dal nulla? In quel 12 marzo non sapevo che pochi giorni dopo, contagiato dal Covid-19, nella mia vita si sarebbe presentata una circostanza in cui quella domanda avrebbe dimostrato tutta la sua concretezza ed attualità. Il 18 marzo è iniziato uno dei momenti più difficili della mia vita per due motivi: 1. avevo ovviamente già fatto l'esperienza del dolore e della malattia, ma per la prima volta ero chiamato a viverla in totale solitudine, sapendo di trovarmi davanti ad una malattia sostanzialmente sconosciuta non soltanto a me, ma anche ai medici cui erano affidate la mia vita e la speranza di guarigione; 2. per la prima volta mi sono trovato di fronte al fatto della mia morte come possibilità non distante e sostanzialmente astratta, ma come possibilità concreta e vicina.

In un messaggio mandato il 25 marzo ai miei dicevo: "Ho paura di non vedervi più.....non mi sento ancora pronto". In questa esperienza, che si è dipanata nell'arco di circa 40 giorni, con l'alternarsi di momenti di speranza, accesi dalla somministrazione di farmaci che qualcuno aveva individuato come potenzialmente efficaci contro questo nuovo virus, e momenti di sconforto determinati dalla constatazione che, dopo diversi tentativi, la situazione non solo non era migliorata, ma addirittura peggiorata, rispetto al momento del ricovero, la domanda di Carròn ha assunto tutta la sua concretezza in questi termini: cosa mi può strappare dal nulla del non senso? Perchè il dolore in sé non ha senso ed è inevitabile porsi le domande di sempre: perchè a me? A chi o a cosa serve che io soffra? Perchè Tu, O Dio, che puoi tutto, permetti il dolore?

Nei lunghissimi giorni in cui sono stato isolato dentro lo scafandro dell'ossigeno, quando queste domande affioravano continuamente, quello che mi ha fatto compagnia e mi ha sostenuto è stato il dialogo con una Presenza di cui ero certo, con Gesù che sapevo essere con me per sostenermi, ma soprattutto che avrebbe valorizzato il mio dolore trasformandolo, misteriosamente, ma sicuramente in una grazia utile alla Chiesa e al mondo. Essendo Quaresima, questo dialogo assumeva spesso la forma della meditazione della Via Crucis, dal momento che dentro lo scafandro non riuscivo a leggere. Il 26 marzo scrivevo questo messaggio a mia moglie: "Scusate i momenti di sconforto, ma ho la certezza che in questa via crucis io e Lui siamo insieme e Lui è il mio Cireneo che tira la carretta anche per me". E il giorno successivo questo: "Riflessione mattutina: chi è nelle mie condizioni (per non parlare delle Englaro e simili) cosa se ne fa di un movimento che confidasse nelle opere derivanti dalla intelligenza e solerzia dei membri? La questione è semplice: o Gesù è qui con me e porta la croce con me fino alla Resurrezione. O Gesù dà un senso concreto al dolore dei miei famigliari e amici e mio, oppure tutto sarebbe una grande illusione, una distrazione ultima.

Per questo è fondamentale che ogni opera o attività ruoti attorno ad una vera autorità (colui che fa crescere), che richiami che lo scopo di ogni opera è rendere quotidiana la presenza concreta di Gesù per chi fa l'opera e per chi la incontra. Il resto è pula che il vento (o Dio stesso) porta via: avete presente il povero Giobbe, per me il santo più grande della nostra storia? Ciao". Insomma, quello che mi ha sostenuto in quei momenti non è stata la mia forza psicologica (infatti parlavo di sconforto), né un moralismo eroico (infatti io chiedevo, come Gesù nel Getsemani che, se fosse stato possibile, mi fosse risparmiata quella prova), bensì un giudizio, come diceva don Carbajosa nell'assemblea, uno sguardo su di me e sulla realtà. Infatti Carròn nella sua lettera ci richiamava un passo fondamentale della Scuola di Comunità: "È così, circostanza dopo circostanza, nell’esperienza continua di una “convenienza” inaspettata, che «l’incontro fatto, per sua natura totalizzante, diventa nel tempo (sottolineiamolo: nel tempo) la forma vera di ogni rapporto, la forma vera con cui guardo la natura, me stesso, gli altri, le cose. Un incontro, se è totalizzante, diventa forma e non semplicemente ambito di rapporti: esso non stabilisce soltanto una compagnia come luogo di rapporti, ma è la forma con cui essi vengono concepiti e vissuti» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit, p. 40).

Ho cercato di testimoniare questa certezza in un post che ho pubblicato su Facebook la mattina della Domenica delle palme, perchè mi è sembrato l'unico modo per assolvere al compito che ci dà Gesù di non tenere per noi il dono della fede, ma di testimoniarlo a tutti, perchè tutti possano incontrarlo. E ringrazio don Onerio che, appena letto il mio post, mi ha scritto, richiamandomi al fatto che non avrei potuto scrivere quelle cose se attraverso una catena di amici il carisma di Giussani non fosse arrivato fino a me, perché mi ha aiutato a verificare concretamente quanto dice la Scuola di Comunità: "La compagnia concreta, dove accade l’incontro con Cristo, diventa il luogo dell’appartenenza del nostro io, da cui esso attinge la modalità ultima di percepire e di sentire le cose, di coglierle intellettualmente e di giudicarle, il modo di immaginare, progettare, decidere e fare". In altri termini, è la fedeltà alla nostra compagnia che ci aiuta a immedesimarsi in Gesù, così da poter dire, come San Paolo ai Corinzi: "Noi abbiamo il pensiero di Cristo".

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