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Il nuovo priore del Monte: "Ripartire da condivisione e solidarietà, responsabilità e giustizia. I pilastri della casa comune che siamo chiamati a ricostruire"

Sul periodo condizionato dal Coronvirus don Mauro Maccarinelli dice, tra l'altro: "Dal nostro osservatorio sopra il colle avvertiamo in particolare due “segni” in questo tempo così tragico: da un lato le sirene delle ambulanze che arrivano o partono dall’ospedale “Bufalini” che è proprio sotto di noi a nord-est. Dall’altro il silenzio surreale della città" 

Foto archivio Corriere Cesenate

Don Mauro Maccarinelli dal gennaio scorso è il nuovo priore dell'abbazia benedettina di santa Maria del Monte. Abbiamo approfittato di questi giorni di sosta forzata per tutti per porgli alcune domande e per fare la sua conoscenza.

Nato nel 1964 a Melegnano, in provincia e diocesi di Milano, dopo la maturità agraria, nel 1983, il giovane Maccarinelli entra nel monastero di Praglia, non lontano da Padova, dove ha emesso la prima professione monastica nel 1985. Lì compie il percorso di formazione e gli studi di teologia, perfezionati a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale con il baccalaureato e il corso di licenza in teologia fondamentale. Dal 1989 al 1993 vive in una piccola comunità nata da Praglia e tuttora presente in diocesi di Milano. Viene ordinato sacerdote a Praglia nel 2004. Dice di sè: "Oltre agli abati del monastero, che mi hanno accolto e via via affidato i vari incarichi a servizio della comunità, sono particolarmente debitore ad alcune figure di riferimento che ho avuto la grazia di frequentare e che, in modo differente, hanno contribuito a far crescere in me una sensibilità spirituale e l’amore per la Sacra Scrittura. A Praglia per quasi vent’anni ho avuto la responsabilità degli aspetti economici ed amministrativi dell’abbazia".  

Don Mauro, qual è stato il primo impatto con Cesena e con il Monte?

Il primo impatto è stato molto buono e già nell’Eucaristia di domenica 19 gennaio, pur nella semplicità del momento, ho potuto sentire molta simpatia e accoglienza da parte della gente che frequenta normalmente l’abbazia. Il mio inizio qui a Cesena ha coinciso anche con la festa del patrono san Mauro vescovo, così in certo modo ho potuto incontrare nello stesso giorno sia la comunità monastica del Monte, sia i fedeli che salgono su per la preghiera, sia la comunità diocesana raccolta in assemblea liturgica in cattedrale attorno al suo vescovo in occasione della festa patronale: un concentrato di incontri molto significativo. Di Cesena, a parte la cattedrale, non conosco ancora molto; ma qualche rapida discesa per “Via delle Scalette” fino al centro per qualche commissione in uffici o negozi mi ha fatto intravedere una città bella e, cosa per me importante, a misura d’uomo. Spero di poter presto scoprire di più, e fare conoscenza dei suoi luoghi simbolo. 

Cosa si aspetta da questo nuovo incarico?

Ho avuto in precedenza diversi incarichi di responsabilità, soprattutto in ambito amministrativo, ma è la prima volta che mi viene affidata la guida di una comunità. Quindi vivo questo momento, non senza un po’ di trepidazione ma con fiducia, anche come una prova e una sfida per il mio personale cammino umano e spirituale. Da me stesso mi aspetto di sapermi dedicare a questo compito con umiltà e totale generosità. Dalla comunità che mi ha accolto mi aspetto apertura e coraggio, per camminare insieme “sotto la guida del Vangelo” come ci chiede la Regola di san Benedetto. Vivere giorno per giorno un cammino autentico di ricerca di Dio nella preghiera, nel lavoro e nell’obbedienza alle circostanze della vita, nella custodia della fraternità: è la sfida quotidiana del nostro essere comunità monastica nella Chiesa. Mi aspetto di poter dare il mio contributo affinché questa piccola comunità, per tanti aspetti “posta sul monte” della comunità cittadina e diocesana, cresca sempre più come segno autentico del Vangelo per l’edificazione di tutti. Il Monte è sicuramente conosciuto dai cesenati e dagli abitanti della zona come santuario mariano, luogo amato e venerato per la Madonna del Monte. Ma è anche un luogo che presenta evidenti tratti di una profonda “anima monastica” che ormai qui si tramanda, tra luci ed ombre, da oltre mille anni. Santuario con il suo carattere di servizio pastorale e monastero con la sua testimonianza del primato della ricerca di Dio qui si sposano in modo armonico. Questa è la mia impressione. 

Siamo tutti condizionati dall'emergenza Coronavirus. Come vive la comunità monastica queste settimane di ritiro forzato?

La vita di una comunità benedettina si svolge sostanzialmente all’interno del monastero. Da questo punto di vista, non è cambiato molto per noi: normalmente le porte sono abbastanza “chiuse” in uscita. Le porte sono abitualmente aperte in entrata – a cominciare dal grande portale che immette nella chiesa e dalla porta che introduce nel chiostro quattrocentesco – segno di quello scambio fecondo di relazioni e di quella vitalità che hanno sempre caratterizzato la vita delle abbazie lungo i secoli. E sotto questo aspetto, invece, ora tutto è cambiato. E se da un lato la nostra vita interna è più tranquilla (non veniamo cercati né in chiesa per il servizio delle confessioni né alla portineria per le altre incombenze quotidiane), dall’altro le manca evidentemente qualcosa di importante. Abbiamo più tempo per la preghiera, lo studio, il lavoro quali pulizie straordinarie o manutenzione di ambienti un po’ trascurati. Dal punto di vista concreto cerchiamo anche noi di attenerci ad alcuni comportamenti prudenziali, siamo un po’ più distanti nei posti in coro e in refettorio, ma non essendo grazie a Dio nessuno di noi ammalato ci è risparmiato, almeno all’interno, il fastidio di mascherine e gel sanificanti come invece tocca fare a molta gente ed anche ad alcune comunità monastiche colpite dal virus. Pur “costretti” dentro i confini del monastero, riconosciamo di essere di gran lunga privilegiati rispetto a tante altre persone che vivono in spazi molto ristretti. In regime di normalità viviamo in un microcosmo abbastanza ristretto, i confini nel monastero, ma ora evidentemente siamo un po’ avvantaggiati. Dal nostro osservatorio sopra il colle avvertiamo in particolare due “segni” in questo tempo così tragico: da un lato le sirene delle ambulanze che arrivano o partono dall’ospedale “Bufalini” che è proprio sotto di noi a nord-est. Dall’altro il silenzio surreale della città che si estende ad ovest e che possiamo abbracciare, almeno nel suo centro, con un solo sguardo. Due segni che sono per noi appelli forti alla comunione, alla compassione pensosa ed orante, e che affidiamo al cuore della Madonna del Monte.  

Come farsi prossimi alla gente?

Tutti noi viviamo in questo momento qualcosa di paradossale: da un lato siamo limitati nelle relazioni e nei gesti che le significano, dall’altro siamo costretti gomito a gomito con i più prossimi della famiglia nello spazio ristretto della nostra casa. Tutto questo dovrebbe aiutarci a riflettere sul valore della prossimità verso l’altro. Nel bel mezzo della nostra epoca contrassegnata da una continua corsa contro il tempo e dalla fragilità delle relazioni, per instabilità e superficialità o indifferenza, questa sosta forzata può essere per noi un richiamo a una maggiore consapevolezza riguardo a ciò che ci rende veramente donne e uomini liberi. Una delle ferite più grandi che alcuni si porteranno dentro, e che personalmente mi ha colpito più di ogni altra cosa, è l’impossibilità di essere vicini ai propri cari nel momento della malattia e della morte a causa del virus e dei pericoli di contagio. Questa “separazione estrema” vissuta da alcuni nostri fratelli e sorelle dovrebbe portarci ad apprezzare in modo sommo il bene della prossimità che spesso trascuriamo. Speriamo che una volta finito il pericolo di contagio non ci lasciamo prendere dalla paura che genera indifferenza, ma anzi facciamo memoria di ciò che abbiamo sofferto e cerchiamo di andare in profondità nelle relazioni - familiari, amicali, di lavoro – riscoprendo il valore di quei gesti quotidiani che sostanziano gli umani rapporti, dal saluto, al chiedere scusa, al dire “grazie”, semplici gesti su cui tante volte ha insistito papa Francesco in questi anni. Se l’essere costretti gomito a gomito e per lungo tempo in certe situazioni mette particolarmente alla prova perché ci espone più facilmente per come siamo – differenti e non sempre piacevoli per l’altro – è anche per ciascuno l’occasione di conoscere che non possiamo non essere prossimi all’altro. Una prossimità che parte dal cuore e a cui il Vangelo costantemente ci educa in un cammino di conversione e riconciliazione. Noi monaci cerchiamo di assumere questa assenza di relazioni con l’esterno portandola soprattutto nella preghiera personale e liturgica, che continua il suo normale svolgimento, e vivendola come appello alla responsabilità di una comunione più profonda, con vicini e lontani, amici e sconosciuti. Cerchiamo di non assuefarci all’isolamento forzato, ma di viverlo come chiamata alla solidarietà che parte anzitutto da un cuore che vive non superficialmente l’essere in comunione con tutti. Proprio in situazioni come questa si sperimenta la verità di quella parola di Evagrio Pontico, uno degli antichi monaci e maestri spirituali: “Monaco è colui che dà tutto è separato e a tutti è armoniosamente unito”. Vivere la prossimità è anzitutto reimparare a riconoscere e ad accogliere l’alterità, che ci fa esistere: “Mai senza l’Altro e mai senza gli altri”, come scrive un autore contemporaneo (M. de Certeau). La Regola benedettina è testimone di un valore fondamentale della convivenza umana e cristiana: quello della “stabilità” che non è tanto o soprattutto uno stare fermi in un luogo, ma un “rimanere” nella comunione. La clausura forzata che ora viene in certo modo imposta a tutti, e indubbiamente infastidisce, forse potrebbe portarci a riscoprire anche questo valore della stabilità delle relazioni interpersonali e della durata della comunione che le fa essere autentiche. 

Come avete vissuto la Pasqua?

Abbiamo avuto la grazia di poter celebrare, pur se a porte chiuse, tutta la liturgia del Triduo Pasquale, con dignità e solennità. Soli, ma in comunione profonda con tutti, soprattutto i più provati, in unione al nostro vescovo e a tutte le membra del corpo ecclesiale. Ma speriamo che il segno del “popolo” sacerdotale, profetico e regale – popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (S. Cipriano) – possa risplendere nuovamente e al più presto in tutte le comunità cristiane ed anche nella nostra chiesa del Monte. Noi abbiamo bisogno di celebrare “nella realtà” i sacramenti della fede, e non possiamo assolutamente assuefarci né tantomeno accontentarci di una partecipazione “virtuale” imposta dalla necessità del momento.

 

Qualcuno è salito lo stesso per confessarsi?

A motivo delle restrizioni imposte in via cautelativa sono ormai pochissime le persone che salgono al Monte. Ogni giorno qualcuno passa ed entra in chiesa per una preghiera alla Madre di Dio. Le confessioni sono sospese. Se le misure imposte dureranno ancora a lungo occorrerà pensare, in accordo con il nostro vescovo, qualche concreta forma nuova (magari passeggiando in chiesa a distanza di sicurezza, in ogni caso fuori dal confessionale) per non privare troppo a lungo i fedeli del sacramento della riconciliazione. Qui a Santa Maria del Monte c’è una tradizione molto forte in questo senso – la gente viene di continuo e sa che trova sempre un sacerdote disponibile per la confessione – e sarebbe un vero peccato che tutto ciò finisse. 

Qual è ora il ritmo delle giornate?

Il ritmo delle giornate è ora più disteso riguardo all’impegno di presenza in basilica: una sola Messa domenicale e niente confessioni. Ma per il resto l’orario della comunità non è cambiato: sveglia alle 5,15, Ufficio delle Letture alle 5,30, Lodi Mattutine alle 7, seguite dalla celebrazione dell’Eucaristia. Poi lavoro/studio fino alle 12, preghiera di Sesta alle 12,20, pranzo, riposo, preghiera di Nona alle 15, lavoro/studio fino al Vespro che celebriamo alle 18,30. Dopo il Vespro abbiamo comunitariamente la lettura continua della Scrittura che prosegue poi con la lectio divina personale. Alle 20 cena, seguita da circa mezz’ora di ricreazione comune e poi la preghiera di Compieta che chiude la giornata. Dopo la preghiera di Nona abbiamo normalmente le litanie lauretane ed alcune preghiere alla Vergine Maria, con una speciale menzione della nostra città, a cui aggiungiamo in questo tempo una particolare preghiera per ciò che sta vivendo tutto il mondo.    

Come approcciarsi al futuro?

Nei Vangeli di Pasqua sentiamo risuonare spesso il saluto di Gesù ai suoi: “Pace a voi”! Questo saluto ci raccorda con l’intenzione originaria di Dio: “Io conosco i pensieri che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11). Il futuro non può che essere “pieno di speranza”, perché sappiamo per fede che Gesù Risorto ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo, la “lieta notizia” che deve essere annunciata ad ogni creatura. È Lui, il Risorto, il compimento di quella “benedizione” di tutte le genti che Dio ha promesso e iniziato con Abramo (At 3,25-26). Il Risorto è la primizia di questa vittoria sul male e sulla morte, e dietro di lui anche noi, anche il nostro mondo e la storia – con le sue pene e i suoi travagli – camminiamo verso la piena manifestazione di questa vittoria. Se ci pensiamo bene, la Pasqua è iscritta nell’essenza delle cose e dell’esistenza umana: non c’è vita senza la morte, come il seme gettato nella terra non germoglia e non produce frutto se non marcisce. Questo momento triste e difficile per tanta parte dell’umanità può e deve essere letto – almeno da noi credenti – nella luce della Pasqua. 

Con quali pensieri? Con quale cuore?

La Pasqua è sempre un muovo inizio. Anche noi, da questa esperienza di “morte” a tanti livelli – pericolo, morte effettiva per tanti, costrizioni, ecc. – dovremmo poterne uscire in certo senso “nuovi”. “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo” (Ez 36,26): è la promessa di Dio che attende sempre di potersi realizzare in noi. Al di là delle molteplici teorie sulle cause di questa pandemia, non possiamo non interrogarci e non possiamo affannarci per ripartire esattamente dal punto in cui eravamo prima di questa sosta forzata, e con lo stesso atteggiamento. Almeno noi credenti dovremmo fare nostra in profondità la preghiera di papa Francesco la sera del 27 marzo: “Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”. Un cuore nuovo, capace di condivisione e di dono, ecco ciò di cui il mondo ha bisogno, “perché siamo tutti sulla stessa barca” (cf Mc 4, 35ss). Accogliere in verità la vita come dono e farne dono, ecco una delle parole forti che ci vengono dalla tempesta in cui siamo immersi. Condivisione e solidarietà, responsabilità e giustizia sono alcuni dei pilastri della casa comune che siamo chiamati a costruire e ricostruire. Con fiducia, perché “Egli vi precede in Galilea, là lo vedrete” (Mc 16). Nella “Galilea” della nostra quotidianità, con i suoi chiaroscuri, le sue sconfitte e le sue vittorie, noi camminiamo verso la Pasqua senza fine, e vedremo il Signore e potremo gioirne ogni volta che sceglieremo la vita e il bene. Forse tante volte ci chiediamo: che posso io contro il male presente nel mondo? Ma la risposta ce la dà ancora una volta il Vangelo: “È dall’interno del cuore che escono i pensieri cattivi che portano al male” (Mc 7,21). Lasciamoci risanare il cuore dal Vangelo, dalla ricerca della verità e del bene: qui troveremo lo slancio per ripartire, nella certezza che il Signore è con noi tutti i giorni, fino alla fine. Stili di vita nuovi, per il bene di tutti e del mondo che abitiamo, possono nascere solo da un cuore nuovo.    

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