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"La panchina di Antonio", l'appello del padre al termine della Messa di esequie

Una lunga confessione pubblica, davanti a tanti amici, familiari e parenti. "Mettiamo il bello attorno ai nostri ragazzi. Oggi è capitato a mio figlio. Domani può capitare al tuo. Antonio deve essere l'ultimo"

La chiesa di San Domenico questa sera dopo le 19. Ancora gente stretta ai familiari di Antonio, per fare sentire tutto l'affetto. Oggi abbiamo tempo, ha ripetuto più volte il padre

Al termine della Messa, animata dal coro diretto da Chiara Rocculi delle scuole del Sacro Cuore frequentate da Antonio alle elementari e alle Medie, per il funerale dello studente del liceo classico “Monti”, il padre Andrea, con immenso coraggio, ha preso la parola. “Non sarò breve - ha avvertito tutti i presenti, almeno un migliaio, che hanno gremito la chiesa di San Domenico -. Oggi togliamo il tempo. Abbiamo tempo. Oggi dobbiamo fermare il tempo, come singoli e come comunità. Ci dobbiamo interrogare. Potete andare e venire. Staremo qui fino a mezzanotte. Sono d’accordo con don Firmin che è stato per noi prezioso in questi giorni”.

“Ma, vi assicuro – ha proseguito il padre che ha tenuto la parola per ben oltre un’ora ininterrottamente - noi siamo in piedi. Ringrazio il Signore perché siamo fortunati. Ci ha affidato Antonio per 18 anni e io continuo a sgridarlo, anche oggi. La situazione che stiamo vivendo è di certo anormale, ma sono sereno e sono, in un certo senso, anche felice. Grazie per le vostre infinite preghiere che hanno spinto Antonio già lassù. Non è più qui. Ho chiesto a tutti voi una preghiera e grazie alle vostre suppliche oggi sono qui, in piedi”.

“Antonio non ha mai parlato male di nessuno – ha detto ancora il padre -. Un suo tratto caratteristico era la gentilezza. Per questo a volte mi faceva imbestialire. Gli dicevo: stai dalla mia parte sì o no. Sono tuo padre. Ora, stiamo cominciando a imparare e a capire. Ricordo anche la sua nascita, il 28 ottobre 2001, alle 18,50. Aveva un suo equilibrio. Io lo consideravo a volte un pigro e gli dicevo ‘dai studia’. Per questo vi dico: io so cose che nessuno di voi sa. Ma oggi, mi ripeto, abbiamo tempo”.

“La mia casa sarà sempre aperta per ciascuno di voi. Mi rivolgo a voi giovani e lo dico senza timori: Antonio ha fatto una cazzata. Non è da imitare. Mi raccomando. Don Firmin, in questi giorni, mi ha dato un grandissimo aiuto. E sempre in questi giorni ho perso il senso del tempo. Voi adesso pensate che ci possa essere qualcosa che mi possa fare male? Questa non è una veglia, ma staremo qui a lungo, stasera. Nessuno se ne andrà senza che io l’abbia salutato, anche quelli coi quali non parlo più da tempo, e ce ne sono qui dentro la chiesa”.

“Corriamo sempre – ha aggiunto il babbo di Antonio -. Ma quando ci fermiamo un momento?”. Poi rivolto agli altri due figli, Pietro Augusto e Luca, ha detto loro: “Guardate quanta gente c’è dietro. Questi sono tutti nuovi fratelli. Non diteci, per favore, condoglianze. C’è da dire qualcosa della dinamica. Io ero all’estero, a Bucarest, per un torneo con uno dei miei figli. Quando mi ha visto, dopo una telefonata, ha fatto cadere a terra la racchetta e ha chiesto: chi è morto?”

Dobbiamo dare speranza ai nostri giovani – uno dei tanti appelli lanciati dal padre di Antonio -. Tutti abbiamo momenti di debolezza. Feci sette ore di viaggio fino alla Slovenia con Antonio di quasi completo silenzio. Diteci qualcosa, ragazzi. Non possiamo intuire tutto. A scuola stava andando bene. Prendeva anche sei in greco, ed era un successo”.

Poi un pensiero ai genitori e ai prof. “Noi siamo convinti che siano sempre più importanti quelli di matematica e di italiano. Mentre penso che quelli di religione e di educazione fisica, dove non c’è mai la fila quando ci sono le udienze, non lo siano. Invece sono quelli che conoscono meglio i nostri ragazzi. Ma noi scegliamo la performance. Invece è lo spessore umano la caratteristica più importante nei prof”.

“Allora voi vi chiederete, come noi ci chiediamo, perché l’ha fatto? Andava bene a scuola. Aveva superato il test per giurisprudenza. Ieri avrebbe fatto quello per Economia. Con lui avevo trascorso una bellissima giornata a Milano per il test per la Bocconi. Voleva provare quello per medicina…. Aveva il futuro davanti. Programmava… Gli occhi di ogni ragazzo sono straordinari…”

“Tutti abbiamo responsabilità – ha aggiunto ancora il padre -. I licei, tutti in zona stazione, la zona più brutta e più degradata della città. E’ come avere una pistola puntata alla tempia. A mio avviso è una follia. Io, le mie responsabilità, me le prendo tutte. Ma gli altri che fanno? La stazione è lì davanti ai nostri figli, senza una barriera, senza un filtro. Perché farli vivere nel brutto? Antonio deve essere l’ultima vittima. Se vedete uno disperato, fermatelo, anche a rischio di fare brutte figure. Smettete di guardare gli smartphone. Scrutate gli occhi di chi incrociate. E voi insegnanti, se un ragazzo sbaglia, lasciate sempre uno spazio alla speranza”.

“Sembra che Antonio abbia copiato un compito. Io ho copiato alle elementari, alle medie… Era un ingenuo. A volte prendeva delle infilate… Ha avuto quel momento in cui gli si è tolta la speranza… Io quanto mi devo sentire in colpa? Antonio diceva ai suoi fratelli di avere una grande fiducia nell’aldilà. Fino a lì è stata mancanza di lucidità, ma quel passo in più non l’ha fatto con disperazione. Penso sia stato per lui un atto di fiducia, di convinzione, di serenità”.

“Mi interessa – l’ennesima confessione del padre che è stato un fiume in piena – quello che pensate ciascuno di voi. Antonio ha lasciato delle canzoni, anche forti alcune. Io gli ho parlato di quelle canzoni. Diceva che quelle cose non le pensava. A noi diceva che usciva con le ragazze e invece andava a incidere canzoni. Era un ragazzo sereno, solare, sensibile. Gli avevamo fatto il biglietto per il viaggio di maturità, in Brasile”.

“Dobbiamo pensare a questi ragazzi. Dobbiamo riuscire a fermare il prossimo che ha la stessa idea di Antonio – l’appello più accorato del padre -. La panchina di Antonio. Pensiamo a un luogo di decantazione, un posto bello, un filtro. I ragazzi che a noi vengono affidati, perché non sono nostri, dobbiamo occuparcene di più. Oggi parliamo di mio figlio, ma domani può essere tuo figlio. Voglio occuparmi di questo fatto. Ma da solo non ce la faccio. Allora, un giorno non troppo lontano, potremmo dire a uno che magari ha lo sguardo smarrito: vai sulla panchina di Antonio. Mettiamo intorno ai nostri ragazzi il bello”.

Poi un ricordo recentissimo. “Eravamo al primo volo in aereo per Pietro Augusto, quello per il torneo di tennis. Da lassù tutte le cose diventano piccole, si relativizzano. Ma oggi, io posso dare la vita per mio figlio? Gli dovevo fornire lo strumento per fermarsi. Mi sento in colpa terribilmente. Cosa mi ci è voluto per rendermi conto? A me e alla mia famiglia. Poche settimane fa abbiamo festeggiato gli 80 della mia mamma. E io le ho dato questo calcio. Scusami mamma. Scusami”.

E poi ancora una confessione pubblica. “I miei figli mi hanno detto. Babbo, se adesso mi chiedono quanti fratelli ho cosa devo rispondere? Ho l’opportunità di ripensare queste cose perché ora ho un figlio lassù. La nostra famiglia, ora, è diventata molto più grande. Pensate, con mia moglie abbiamo dovuto scegliere le maniglie della cassa. La tomba in cui seppellirlo. Ma in questi giorni ho avuto il tempo per fermarmi…”.

Poi indica due amici che lo sono andati ad abbracciare. “Con loro due non ci parlavamo più da lungo tempo. Non accadrà mai più, con nessuno”.

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"La panchina di Antonio", l'appello del padre al termine della Messa di esequie
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