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Kashmir: cancellata l’autonomia. Torna sotto il controllo dell’India

Sarebbe un errore attribuire la svolta, che rischia di incendiare una regione da sempre “calda”, a una contingenza politica o a un capriccio populista di Modi, che pure ha fatto del tema uno dei caposaldi della propaganda con cui ha stravinto le elezioni politiche del maggio scorso

Foto agensir.it

Via la bandiera, la possibilità di legiferare in proprio (tranne che sui temi di Difesa e politica estera) e di gestire le risorse idriche. Frantumata la divisione amministrativa: da tre province (Jammu, Kashmir e Ladakh) a nove, più piccole e più controllabili. Eliminato anche il divieto di acquistare case o terreni e di lavorare in impieghi pubblici prima imposto ai non residenti.
La decisione del premier Narendra Modi di fatto cancella l’autonomia del Kashmir, che risale al 1947, e riporta la regione, l’unica a maggioranza islamica nel Paese, sotto il diretto controllo del Governo centrale dell’India. Sarebbe un errore attribuire la svolta, che rischia di incendiare una regione da sempre “calda”, a una contingenza politica o a un capriccio populista di Modi, che pure ha fatto del tema uno dei caposaldi della propaganda con cui ha stravinto le elezioni politiche del maggio scorso.
Modi, in primo luogo, risponde a una situazione che, in quell’area, è in pieno movimento. Al confine Est del Kashmir indiano, infatti, si trova lo Xinjang cinese che, con una popolazione al 45 per cento uigura e musulmana, crea non pochi problemi al Governo di Pechino, che anche nel recente passato ha usato la mano pesante per soffocare i sussulti indipendentisti.

Il rischio di un reciproco contagio tra Kashmir e Xinjang è reale. Se a questo aggiungiamo che appena a Nord c’è l’area detta del Ghiacciaio Siachen, ancora contesa tra India, Pakistan e Cina, ripartita da confini provvisori e dal 1947 teatro di innumerevoli scontri tra gli eserciti indiano e pakistano, allora diventa facile capire il senso della mossa di Modi.

Anche così, però, la cancellazione dell’autonomia del Kashmir resta un azzardo. Pesano molto le ragioni storiche. Per secoli la regione fu esposta agli appetiti dei più diversi conquistatori, dalle tribù mongoliche ai cinesi fino agli arabi che, all’epoca del califfato di Baghdad, vi diffusero la fede islamica. Il primo sovrano musulmano fu lo shah Mirza, intorno alla metà del XII secolo. I sikh arrivarono ai primi dell’Ottocento e nel 1846 il maharaja  Singh divenne governatore del Kashmir grazie a un accordo con gli inglesi, allora dominatori del continente indiano.
L’intreccio di culture e religioni è quasi inestricabile. Nel 1947, quando gli inglesi lasciarono l’India e il Pakistan si rese a sua volta indipendente dall’India, il maharaja che governava il Kashmir esitò a scegliere, poi decise di indire un referendum. Il risultato fu un’insurrezione della popolazione islamica appoggiata dalle truppe del neonato Pakistan e contrastata da quelle dell’India. Dopo due anni di guerra, un milione di morti, 7 milioni di musulmani costretti a trasferirsi in Pakistan e 5 milioni di indù e sikh spinti a emigrare in India, dovettero intervenire le Nazioni Unite per stabilire una fragile tregua.

Fu tracciata allora la cosiddetta Linea di controllo che tuttora funge da confine tra i due Paesi.

Tra le vette himalayane, e sempre per il Kashmir, si sono combattute altre due guerre: una nel 1965 e una nel 1971, resa ancor più aspra dall’appoggio fornito dall’India alla secessione dal Pakistan del Bangladesh, fino ad allora chiamato Pakistan Orientale. Non si contano, invece, gli scontri tra gli eserciti che, a tratti, hanno tenuto il mondo col fiato sospeso perché entrambi i Paesi sono dotati della bomba atomica.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, nel Kashmir sono comparsi anche movimenti islamisti violenti. Lashkar-e-Taiba, Hizbul al-Mujaheddin e Arkat ul-Ansar sono i più noti, protagonisti di molti attentati contro i militari indiani che stazionano a Srinagar e negli altri centri. A renderli temibili non è solo l’appoggio di parte della popolazione ma anche i contatti con i talebani afghani e l’esperienza maturata in quel contesto da molti dei loro militanti. Tutt’altro che rari, d’altra parte, gli atti brutali da parte dell’esercito dell’India. Nel 2016, dopo un attentato che uccise 20 soldati indiani e a cui seguì l’assassinio mirato condotto dagli stessi indiani contro uno dei leader di Hizbul al-Mujaheddin, la popolazione di fede islamica diede il via a una serie di proteste. I militari indiani non esitarono a sparare e a uccidere più di 100 civili.

Fonte: Sir
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