democrazia in bilico
Perù: un Paese in crisi con autorità politiche che pensano solo a conservare il potere, tra lo scontento generale
Continui conflitti tra i diversi poteri. Lo scenario non è confortante: la presidente, Dina Boluarte, particolarmente impopolare e continuamente messa in stato d’accusa. E perfino il dittatore condannato per crimini contro l’umanità che, a 85 anni, aspira a candidarsi nuovamente alle presidenziali
Continui conflitti tra i diversi poteri. Autorità politiche che pensano solo a conservare il potere, tra lo scontento generale. Una presidente, Dina Boluarte, particolarmente impopolare e continuamente messa in stato d’accusa. E perfino il dittatore condannato per crimini contro l’umanità che, a 85 anni, aspira a candidarsi nuovamente alle presidenziali. Se l’America Latina vive un momento di grande fragilità istituzionale e democratica, il Perù sembra incarnare tutti gli “storici vizi” del Continente.
Per la presidente accuse a ripetizione. Con il poco invidiabile primato del maggior numero di presidenti della Repubblica incriminati per corruzione e spesso messi in carcere (tra coloro che hanno guidato il Paese negli ultimi trent’anni non si salva quasi nessuno), il Paese vive una legislatura mai “decollata”: prima la vittoria dell’inesperto populista di sinistra Pedro Castillo; poi, dopo un anno e mezzo, il maldestro tentativo di colpo di Stato dello stesso Castillo, subito arrestato; quindi, dopo l’avvento al potere della sua vice, Dina Boluarte, ben presto spostatasi a destra, le proteste popolari che hanno bloccato il sud del Paese tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023; fermate le proteste, sono iniziati gli scontri istituzionali. In questo contesto, Boluarte è stata prima accusata di corruzione per il cosiddetto “scandalo dei rolex”, i due lussuosissimi orologi da lei sfoggiati e prima mai dichiarati. Nelle ultime settimane, è stato il procuratore generale del Perù, Juan Carlos Villena, a presentare una denuncia costituzionale contro la presidente e sei ex ministri per i reati di omicidio aggravato e lesioni gravi, tra le altre accuse, come risultato dei morti e dei feriti nelle proteste di fine 2022 e inizio 2023, che causarono 44 morti e 116 feriti.
Il “ritorno” di Fujimori. E non è tutto. In mezzo a tanta confusione, ecco stagliarsi la figura di Alberto Fujimori. L’ex presidente, a dispetto della dittatura esercitata in Perù e della sua condanna per crimini contro l’umanità, oggetto di un indulto che l’ha fatto uscire dal carcere nei mesi scorsi, vorrebbe candidarsi alle elezioni presidenziali previste in Perù nel 2026. La figlia Keiko Fujimori, fondatrice del partito di destra Fuerza popular e per tre volte sconfitta al ballottaggio delle presidenziali, ha affermato che il padre le ha detto che vorrebbe “partecipare alla vita politica”. Secondo numerosi giuristi, è preclusa a Fujimori la possibilità di candidarsi perché è stato condannato per un reato intenzionale, come stabilito dall’articolo 34-A della Costituzione peruviana e dalla Legge organica sulle elezioni, ma va detto che il Parlamento, nelle ultime settimane, ha approvato diversi provvedimenti che rendono meno forti i baluardi a favore dello Stato di diritto. In ogni caso, è surreale che un’ipotesi di questo tipo venga anche solo ventilata.
Ipotesi non realistica, ma mancano leader. Spiega al Sir Wilfredo Ardito Vega, docente di Diritto alla Pontificia Università cattolica del Perù ed esperto di diritti umani: “Effettivamente, si assiste a una riabilitazione di Fujimori. Alla gente interessa poco dei diritti umani e del fatto che in passato siano stati violati in modo clamoroso. Alcuni pensano che ci sia un’ossessione verso l’ex presidente e vedono tutti i problemi irrisolti del Paese, a oltre vent’anni dal ritorno della democrazia”. Questo, però, è solo un lato della medaglia, poiché, al tempo stesso, “tutti sanno che Fujimori non è ricandidabile, a causa dei reati per i quali è stato condannato, si tratta solo di una suggestione mediatica. Oltre a tutto, si sa bene che è anziano e molto malato. L’impressione è che si tratti di una strumentalizzazione, magari della figlia Keiko, che da tanti anni prova a diventare presidente e viene sempre sconfitta al ballottaggio. Molti, a destra, sono preoccupati e non sono d’accordo su questa riabilitazione”.
Sullo sfondo, un “conflitto storico” nel mondo politico peruviano, spiega il docente, quello tra i cosiddetti “caviar” (il modo dispregiativo con cui vengono chiamati a Lima i leader di una sinistra moderata, in Europa si direbbe “da salotto” o “radical chic”) e gli “anti-caviar”: “La politica in Perù è molto polarizzata, appunto tra i ‘cavier’ e gli ‘anti-caviar’, tra i quali troviamo politici sia di estrema destra sia di estrema sinistra”. Quanto alla presidente Boluarte, “la realtà è che nessuno la vuole, ma non si vedono figure alternative all’orizzonte. Probabilmente resterà presidente fino alle prossime elezioni del 2026. Lo stesso Congresso guarda ai propri interessi, non certo al bene comune. La stessa società civile è diventata molto debole”.
Le sfide per la Chiesa. Una situazione che chiama in causa la Chiesa, presenza molto radicata nel Paese. Da questo punto di vista, non mancano le analisi e le denunce, come quella della Conferenza episcopale peruviana (Cep), la quale, in ogni caso, in occasione della recente festa nazionale, ha denunciato: “Il deterioramento e lo scontro delle nostre istituzioni e la mancanza di credibilità in esse, la mancanza di leadership sociale, politica e, soprattutto, etica, la debole assenza dello Stato e la scarsità di infrastrutture sanitarie, educative, stradali e di altri servizi pubblici, soprattutto nelle zone più remote del Paese, hanno dato origine a una grande fragilità politica e sociale, che impedisce la promozione dello sviluppo umano integrale”.
Forti parole sono arrivate anche dall’arcivescovo di Lima e primate del Perù, monsignor Carlos Castillo Mattasoglio, sempre in occasione della festa nazionale: “È urgente rafforzare e forgiare uno Stato veramente e ampiamente democratico, che promuova il bene comune e combatta l’evasione fiscale e la disattivazione o l’abuso delle istituzioni, perché esse sono destinate a curare, promuovere e difendere le persone. Chi usa e corrode lo Stato, privilegiando i propri interessi, vive nella slealtà istituzionale”. Ma occorre guardare avanti, anche su tempi medio-lunghi. In tale contesto, proprio dall’arcidiocesi di Lima è giunta nelle settimane scorse una “tre giorni” di riflessione e dibattito su “Sinodalità e democrazia”, caratterizzata da alcune importanti relazioni e da momenti di dibattito ristretto.
Il politologo e sociologo Rolando Ames ha affermato che è necessario partire dalla riorganizzazione delle basi della vita sociale e personale. E la stessa sinodalità, se praticata, può essere una profezia di cambiamento per una società più partecipativa e fraterna, come ha spiegato padre Juan Bytton: “La sinodalità non è un concetto, è un’azione che diventa esperienza, che dinamizza e rinnova i concetti. Pertanto, la partecipazione non si improvvisa, è un allenamento umano. Limitare la partecipazione significa sminuire la dignità delle persone”. L’arcivescovo Castillo ha sottolineato che la sinodalità può contribuire a una migliore democrazia nella nostra società e nelle società umane in generale. Per raggiungere questo obiettivo, il punto di partenza è
“riconoscere la complessità della situazione e le sfide che ogni problema rappresenta”.
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