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Africa dimenticata

Vescovo Mogadiscio: Basta indifferenza. È l'attentato più grave mai compiuto"

"Di fronte ad un attentato così grave non bisogna abbassare le braccia ma guardare in faccia la situazione e vedere come si può rispondere, nel migliore dei modi. Oltre alle vittime che piangiamo, non bisogna rendere vittima anche la nostra speranza". È l'appello lanciato da monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Gibuti e Mogadiscio, dopo l'attentato terroristico in Somalia, con oltre 300 vittime.

Foto AFP/Sir

"Di fronte ad un attentato così grave non bisogna abbassare le braccia ma guardare in faccia la situazione e vedere come si può rispondere, nel migliore dei modi. Oltre alle vittime che piangiamo, non bisogna rendere vittima anche la nostra speranza". È l'appello lanciato da monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Gibuti e Mogadiscio, dopo l'attentato terroristico in Somalia, con oltre 300 vittime. Mons. Bertin punta il dito anche contro gli affari loschi di chi fa gli interessi di alcuni Stati, soprattutto nel traffico d'armi.

Oltre 300 morti, tra cui 15 bambini, e altre centinaia di feriti che hanno dovuto subire l’amputazione di braccia o gambe. È l’attentato terroristico più grave avvenuto finora in Somalia, nel centro della capitale Mogadiscio, compiuto sabato 14 ottobre con due camion-bomba nei pressi del Safari hotel, vicino al ministero degli Esteri. Le autorità lo attribuiscono agli estremisti islamici di al Shabaab ma non è stato ancora rivendicato. “Di fronte ad un attentato così grave non bisogna abbassare le braccia ma guardare in faccia la situazione e vedere come si può rispondere, nel migliore dei modi. Oltre alle vittime che piangiamo, non bisogna rendere vittima anche la nostra speranza”. A parlare al Sir è monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Gibuti e Mogadiscio, in questi giorni in Italia per partecipare a vari eventi, tra cui il Festival della Missione che si è appena concluso a Brescia e la veglia missionaria diocesana a Roma il 19 ottobre.

È davvero l’attentato terroristico più grave?
Si, senza dubbio. Da quando sono in Somalia, nel 1978, a parte gli scontri di guerra, è l’attentato più grosso mai successo, nonostante 26 anni di disordini e anarchia. Conosco la zona dove è successo perché ero lì un mese fa per alcuni incontri. È la zona del ministero degli Esteri, dell’ambasciata del Qatar, in pieno centro.

Anche se non è stato ancora rivendicato si pensa siano stati gli Shabaab. Concorda?
Potrebbe essere stato anche qualcun’altro. Shabaab è legato ad Al Qaeda, ma potrebbe essere stato anche l’Isis o altri, che avrebbero interesse a gettare discredito sugli sforzi dell’attuale governo, ancora debole, per diverse motivazioni.

Èvero che la Somalia è un laboratorio terroristico dove si provano le modalità di attacco da compiere altrove?
Certamente la Somalia si presta benissimo a questo tipo di “allenamento”. Perché, di fatto, è un Paese non governato da 26 anni.

Ci sono vittime tra i cristiani?
Che io sappia no, ma noi cristiani siamo pochissimi. E comunque quelli che conosco io non abitano in quella zona.

Se ci fosse stata qualche vittima occidentale forse se ne sarebbe parlato di più. Invece la notizia è già stata in gran parte archiviata…
Chiaro. Come al solito. In un certo senso dopo 26 anni di continua guerra e attacchi anch’io, purtroppo, mi sono un po’ abituato a questa indifferenza da parte dell’opinione pubblica internazionale. Anche la gente somala si è un po’ rassegnata a questa situazione. Inoltre si affidano alla filosofia dell’Insciallah, ossia alla volontà di Dio. Ma

stavolta l’attentato è stato davvero gravissimo, enorme.

Com’è oggi, in generale, la situazione della Somalia?
Da un anno il Paese è colpito dalla siccità. Un mese fa sono stato a Baidoa e Mogadiscio per accertarmi della situazione e vedere cosa fare come Caritas Somalia. Poi persiste il fenomeno dell’insicurezza con la presenza di diversi gruppi, tra cui gli Shabaab e l’Isis, rispetto agli sforzi di un governo ricomposto nel mese di febbraio e che stenta a mettere in esecuzione il cosiddetto federalismo, perché ci sono le autonomie locali che spesso non pensano all’insieme della nazione. Ognuno sembra interessato a se stesso. Poi ci sono i giochi delle diverse tribù. Sono tutti somali, parlano la stessa lingua. C’è un insieme di contrasti, di differenze, che vengono utilizzate da chi vuole fare attentati perché sa che non troverà un muro compatto ma una siepe suddivisa.

Qual è l’obiettivo degli Shabaab?
Quello dichiarato è di trasformare la Somalia in uno Stato puramente islamico. E da lì pensano di estendersi al resto del Corno d’Africa.

È un rischio reale?
Secondo me no. Perché i somali stessi sono talmente divisi che sarà difficile andare al di là dei confini.

La società civile come reagisce?
Ci sono diverse espressioni della società civile e gruppetti. Però manca lo stare insieme, lavorare assieme per cercare di reagire compatti ad una situazione del genere.

Alla comunità internazionale fa comodo mantenere la Somalia instabile?
Ai governi occidentali la Somalia non interessa molto. L’impressione che ho è che – spesso – i diversi attori internazionali sono lì per una loro agenda. Ma l’agenda prioritaria dovrebbe essere quella del popolo somalo: farlo rinascere, restituire loro uno Stato.

Perché oggi il vero ostaggio è il popolo somalo.

È ostaggio delle divisioni interne, dei diversi business e affaristi somali che, non essendo presente uno Stato forte, ci guadagnano. E fanno anche l’interesse di alcuni Stati della comunità internazionale che sono lì per motivi vari.

Anche loschi traffici?
Certo. Soprattutto

traffico d’armi, nel quale sono implicate tantissime persone.

Continuano ad avere armi ma non si capisce da dove vengano, chi le vende, chi le produca. C’è tutta una catena a cui si dovrebbe risalire. Negli anni la situazione non è cambiata molto.

Fonte: Sir
Strage in Somalia. Trecento i morti
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