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Ue, radici solide ma ora serve un salto di qualità. Formigoni (storico), “urgente mobilitare risorse straordinarie”

Il 9 maggio ricorre il 70° anniversario della Dichiarazione Schuman, che fu alla base della creazione della Ceca e poi della Cee. Si trattava di ridare la pace al vecchio continente reduce da due guerre mondiali

Da sinistra: De Gasperi, Adenauer e Schuman. Foto agensir.it

Quest’anno ricorrono i 70 anni della Dichiarazione Schuman (9 maggio 1950), ritenuta la pietra miliare del processo di integrazione europea. Un’occasione per riflettere sul percorso dell’Ue, dalla fondazione ad oggi, e per verificare l’eventuale “valore aggiunto” che la collaborazione in chiave politica ed economica tra i Ventisette può rappresentare in questo turbolento tornante storico. Ne abbiamo parlato con Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea, prorettore all’Università Iulm di Milano e direttore scientifico del master in Comunicazione per le relazioni internazionali.

Anzitutto, un giudizio da storico sul significato e il valore politico che ebbe, allora, l’iniziativa di Schuman.
La dichiarazione ebbe un doppio merito: da una parte, era una soluzione politica di breve periodo a un problema complicato. Dall’altra, era congegnata in modo da poter aprire anche un futuro indefinito e promettente. Partiva dalla questione difficile attorno a come reintegrare in Occidente la Germania (appena sconfitta e appena divisa dalla guerra fredda). Cosa su cui si esercitava la pressione forte degli Stati Uniti, contro la resistenza degli europei in generale, ma soprattutto dei francesi, memori della tragedia di una “guerra europea dei trent’anni” appena conclusa. Il che significa che Schuman proponeva un compromesso tra esigenze diverse, permettendo la cruciale ricostruzione dell’industria del carbone e dell’acciaio tedesca, ma sotto controllo di un’Alta autorità sovranazionale europea. Lo faceva ricollegando questo discorso – che sarebbe potuto apparire anche brutale e di corto respiro – con un riferimento a pensieri di collaborazione e integrazione che aprivano un percorso nuovo, ancora del tutto da costruire. Un discorso originale, che recuperava una tradizione di pensiero e di speranze contraria alla guerra e ricca di possibilità per il futuro: l’idea che nessuno Stato europeo poteva pensare, nel nuovo mondo dei giganti, di affermare da solo i propri interessi. E la cooperazione era l’unica via sensata per salvare anche le proprie originalità.

Ci si riferisce spesso – e non senza qualche eccesso retorico – ai “padri dell’Europa” parlando di Schuman, Monnet, De Gasperi, Adenauer… Un titolo a suo giudizio meritato? Quale il loro eventuale lascito per noi oggi?
Una certa retorica eccessiva talvolta ha circondato il loro ricordo e non ha fatto comprendere bene quanto loro tenessero insieme l’essere statisti nazionali di tipo tradizionale e coltivatori della prospettiva europea. Ognuno di loro partiva dagli interessi nazionali, è indubbio. Al di là di questo, però, c’era nella loro prospettiva qualcosa di comune, che era una solida base per intendersi: era la volontà di prendere le distanze dai totalitarismi e dalla stagione della guerra intesa come soluzione “totale” dei mali dell’epoca. Occorreva essere realisti proprio costruendo prospettive nuove, che non potevano che parlare di integrazione, di interdipendenza, di antinazionalismo. Quando De Gasperi – per stare all’Italia – dopo alcuni tentennamenti iniziali si convinse a lanciare l’idea della “nostra patria Europa” fu coraggioso a proporre addirittura un modello simil-federale. Cioè a sfidare tutte le cautele, per un tentativo che nel 1952 metterà le basi di una comunità politica e che fallirà nel 1954. Insomma, la qualità di “padri dell’Europa” era quella di essere profondamente inseriti nella tradizione, cercando la creatività necessaria per indirizzare i processi in una direzione nuova.

L’avvio del processo di integrazione europea rispondeva all’esigenza di pacificazione e ricostruzione nell’Europa post-bellica. Senza azzardare paragoni, l’Europa si trova in questa fase di fronte alla tragica sfida della pandemia da Covid-19. E si guarda con incertezza al futuro sociale, economico, politico. L’Ue può aiutare a fornire risposte concrete ed efficaci per il dopo-coronavirus? Di quali nuove competenze o riforme necessiterebbe in tal senso?
Certamente occorre un salto di qualità, adeguato alla gravità della situazione. Il virus sta dando un colpo di grazia alla stagione della – un po’ illusoria – fiducia nella globalizzazione come processo di spontanea soluzione di tutti i problemi affidato al mercato e all’unificazione economica del mondo. Tornano gli Stati, ma devono essere Stati che funzionano, non caricature. Il sovranismo si accontenta di propaganda sulla chiusura, sul “prima noialtri”, sul fare a meno dell’Europa: ma in fondo a questa strada i cittadini rischiano la delusione. Non si riescono a gestire con gli slogan problemi complessi come quelli che la pandemia ci sta lasciando in eredità, soprattutto partendo dalle fragilità dell’Italia. Ci vuole una statualità all’altezza, che può essere solo quella europea: certo, una statualità plurale, articolata, che rispetti le originalità e la sussidiarietà dei livelli intermedi. Nessuno pensa a un super-Stato. Ma deve essere una statualità efficiente: e oggi dire efficienza significa la mobilitazione di risorse straordinarie per rilanciare il sistema sociale ed economico europeo così duramente provato. Ci vuole una classe dirigente all’altezza, dei nuovi “padri e madri” dell’Europa… Che sappiano giustificare ideologicamente e politicamente, oltre che gestire tecnicamente, l’aumento del bilancio dell’Unione, il lancio di risorse straordinarie di finanziamento (non chiamiamoli eurobond, non condividiamo i debiti se questo non è maturo), con qualche strumento nuovo che raccolga risorse per investimenti innovativi e sostenga in questo modo tutti coloro che sono in difficoltà. Qualcosa si sta muovendo, ma siamo forse ancora troppo lenti rispetto alla gravità della situazione.

Oggi, 9 maggio, è la Festa dell’Europa proprio in relazione alla Dichiarazione Schuman. Si tratta di un evento piuttosto snobbato in Italia e non solo. Se questa data diventasse davvero una “festa”, con la chiusura di scuole e fabbriche e magari qualche commemorazione di piazza, così come si fa nelle feste nazionali, potrebbe assumere una maggior forza simbolica, per aiutare i cittadini a sentirsi “europei”?
Naturalmente può essere un’idea da studiare: la costruzione paziente di miti e discorsi giustificativi che abbiano una presa nel popolo è un aspetto dell’innovazione politica. La pedagogia del rito, della festa, dell’anniversario può e deve essere attivamente coltivata. Però stiamo attenti alla coerenza del progetto: non si possono costruire miti positivi se intanto si traccheggia sulle cose sostanziali. Non si possono diffondere messaggi di fiducia se l’Unione si dimostra lontana dalle esigenze concrete dei cittadini, poco attenta alle istanze democratiche, tutta chiusa in un castello di coerenze ideologiche un po’ stantie. Occorre muoversi sempre sui due livelli: legare strettamente i discorsi legittimanti alle politiche innovative.

Fonte: Sir
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