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Coronavirus. il cappellano del Sant'Orsola: "Poter andare nei reparti Covid? Mi sento un preferito"

"Quando ci si accorge di non avere parole, l’unica risposta è Dio. Un Dio che ha sofferto per trasfigurare la sofferenza con la Risurrezione. In quei luoghi porto me stesso e il mio essere battezzato che mi fa essere annunciatore di Cristo dove mi trovo”, aggiunge il sacerdote

Foto Ansa/SIR

Sul display compare la scritta “Eminenza”. Dall’altra parte del cavo arriva la domanda: “Don Santo, ma ci stai andando nei reparti Covid?”. Nasce da qui la nuova avventura di don Santo Merlini, sacerdote della diocesi di Bologna appartenente alla “Fraternità San Carlo”.

“Origine e obbedienza – aggiunge il prete che fa servizio come cappellano all’ospedale Sant’Orsola di Bologna -. E siccome quella domanda mi è stata rivolta qualche settimana fa dal mio vescovo, il cardinale Matteo Zuppi che ho memorizzato come eminenza sul cellulare, dopo qualche tentennamento ho intrapreso questa nuova esperienza. Questa è per me l’obbedienza che mi riporta all’origine della mia vocazione”.

Il prete ha raccontato questi fatti ieri sera, durante un collegamento con 150 giovani che si trovano ogni giorno per la recita del Rosario, una proposta nata all’inizio dell’emergenza sanitaria da alcuni ragazzi di Gs di Forlì. “Il bello – dice il sacerdote rispondendo alla domanda su come si può trovare il bello e il vero nell’andare dagli ammalati di Coronavirus – e il vero l’ho visto qui da voi stasera. Con tanti giovani insieme per pregare… Nel silenzio di queste giornate, riscopriamo una Presenza”.

Nell’andare a trovare i pazienti ammalati di Covid cosa ci si può trovare? “Metto a frutto il mio sacerdozio – risponde il don -. Sono prete per benedire, battezzare, assolvere e annunciare Cristo. In questo mi sento un preferito: poter andare in quei reparti, dove tanta gente svolge il proprio dovere, assieme ai medici e agli infermieri. Ci sono anche gli addetti alle pulizie, i manutentori. E ci sono anch’io, un preferito, appunto. Sì, perché il mio dovere è annunciare Cristo a tutti”.

“Ho notato - prosegue il sacerdote – che in queste settimane così difficili per ognuno di noi, cresce nelle persone un grande desiderio di Dio, acuito e drammatizzato dal dover vivere in solitudine. E l’ho notato non solo negli ammalati, ma anche nel personale. Come se ciò che porto fosse atteso. All’inizio i sanitari erano perplessi se farmi entrare o meno in Terapia intensiva. Ho poi capito che lo facevano per me, per tutelarmi”.

“Ricordo – prosegue nel racconto don Santo – che un giorno sono entrato nel reparto e ho chiesto ad alta voce: diciamo una preghiera? Tutti si sono fermati e si sono fatti il Segno della Croce. Quando ci si accorge di non avere parole, l’unica risposta è Dio. Un Dio che ha sofferto per trasfigurare la sofferenza con la Risurrezione. In quei luoghi porto me stesso e il mio essere battezzato che mi fa essere annunciatore di Cristo dove mi trovo”.

“Quando entro nel reparto Covid mi bardo di tutto punto: doppi guanti, doppia mascherina, doppio camice… e poi aggiungo una croce fatta con lo scotch. Mi si avvicina un signore attorno ai 50-60 anni che mi dice: sono commosso perché finalmente vedo una presenza amica. Io, gli dico, sono segno di un Altro”.

“In un’altra occasione – aggiunge ancora don Santo – ho dato l’assoluzione generale, come previsto in questi casi di pandemia. In quella formula viene detto che poi il penitente appena può si deve confessare da un sacerdote. Un 38enne chiese subito il mio numero a un medico perché mi voleva chiamare appena possibile. Avverto la responsabilità di portare, nel sacerdozio, la frase di Gesù nel Vangelo: a chi perdonerete i peccati verranno rimessi. A chi non perdonerete resteranno non rimessi. Ecco perché, se posso, non posso esimermi dall’andare dove viene richiesta la presenza del prete”.

“Questa situazione così grave non l’ha voluta Dio, intendiamoci, ma l’ha permessa per la nostra conversione. La fede mi è stata donata in famiglia e grazie ad alcuni incontri avuti durante le scuole superiori. Un grande dono che desidero condividere con tutti quelli che incontro. Non vado nei reparti Covid a cuor leggero, intendiamoci. Ho una gran paura. Una paura che ho imparato a offrire. Ho paura per la mia mamma. La paura c’è ed è forte, ma lo stesso mi sento un preferito perché entro in quei luoghi a consolare e confortare”.

Un ultimo aneddoto. “Un giorno vado in cappella e vedo un addetto alle pulizie – dice in conclusione don Santo -. Tanti si sono dati per malati, mi dice questo signore - un tunisino musulmano - invece io sono qui. Affido tutti a Dio e gli dico: se vuoi che faccia questo, tienimi in salute. Che volete che vi dica di più? Dio è più forte delle mie paure”.

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