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L'inviata di guerra (Rai) Lucia Goracci: "Afghanistan, li abbiamo lasciati soli"

"Chi non è riuscito a scappare in agosto, poi non ci è più riuscito"

Lucia Goracci in zone di guerra

Ci sarebbe anche il capo della polizia locale di Herat tra le vittime del naufragio di Cutro. Uno dei 20mila afgani che le autorità italiane avevano promesso di portare in Italia con ponti aerei, all’indomani del ritorno dei talebani, dalla fine dell’agosto 2021. È una delle storie incontrate dall’inviata di guerra della Rai Lucia Goracci, che ha raccontato venerdì sera all’interclub organizzato dal Rotary di Castel Bolognese, guidato da don Tiziano Zoli. “Donne in situazioni di guerra”, questo il titolo dell’incontro online che si è subito trasformato in un dialogo aperto con l’inviata e la ventina di presenti, tra cui alcuni giornalisti. “Chi non è riuscito a scappare in agosto, poi non ci è riuscito più. Quello che aveva promesso anche il nostro Paese non è poi stato mantenuto”, aggiunge. Anzi, dalla Turchia sarebbero stati rimpatriati 44 mila afghani. Altroché ponti aerei per portarli in salvo. E allora, assieme a tanti soldati italiani che hanno nutrito sentimenti di rabbia, “vivi un senso di tradimento”. 

Iran, Siria, Iraq, Afghanistan, Ucraina, Turchia, Libia, NordAfrica, Medioriente: sono alcuni dei teatri di guerra raccontati in questi anni dalla Goracci. Non solo quando la guerra imperversava. Anzi: “Mi piace il giornalismo di immersione - ha spiegato durante l’incontro in collegamento dalla sua casa di Roma -. quello che va a vedere anche i dopoguerra, spesso dimenticati, e che, se mal gestiti, diventano a loro volta il germe di ulteriori conflitti. Come accadde in Iraq, dove arrivò l’Isis, nato dalle spoglie del partito di Saddam Hussein”. Cita Maria Grazia Cutuli e Ilaria Alpi (a cui è intitolato il prestigioso premio che la Goracci ha vinto nel 2011) come grandi maestre di giornalismo, “persone che volevano andare a capire, a vedere con i loro occhi”. 

Come tenta di fare ogni giorno l’inviata, incontrando persone, guardandole negli occhi e raccontando storie, molto spesso di donne. “Ero a Kabul l’11 settembre 2021 - racconta la Goracci - nel 20esimo anniversario dell’attentato delle Torri Gemelle, il primo con i talebani di nuovo al potere. Immaginatevi la retorica del ‘Alla fine abbiamo vinto noi’. Le strade erano piene di manifesti enormi che riproducevano i volti degli eroi di guerra, tra cui quella del mullah Omar. Vedo due donne che con i loro veli tentano di coprire la vista a una bambina. Erano la mamma e la zia che non volevano che vedesse questi grandi manifesti di cui era tappezzata la città. Ecco, mi è sembrato vedere Benigni nel film La vita è bella” che voleva fare intendere ai bambini un’altra realtà. Sull’Afghanistan la giornalista aggiunge che anche l’azienda per cui lavora non è stata così attenta: “Lo dicevo da marzo che qualcosa bolliva in pentola, ma sono partita solo il 13 agosto”. 

Spesso, prosegue Goracci, “noi giornalisti dobbiamo essere come dei chirurghi: in situazioni difficili, con i minuti contati. Anche con 10 nodi allo stomaco dobbiamo fare, raccontare. Ma ci sono dei momenti in cui vai giù. A me capita, ad esempio, quando preparo la valigia, a fine trasferta, e ti assale quel senso di nostalgia, rimpianto e colpa, perché tu vai ma loro restano”. In uno dei quei momenti l’inviata ha scritto un testo, “Andiamo”, che ha voluto leggere venerdì sera. “Le guerre sono situazioni estreme che ti chiamano in causa fino in fondo - ha spiegato rispondendo a una domanda -. Le giornate iniziano prestissimo e sono massacranti, e per tutto il tempo vedi soffrire le persone e, ancor peggio, i bambini”. Ma paradossalmente, in cambio di tutte le energie che toglie, a chi la racconta, la guerra restituisce il senso e la voglia di vivere: “Non sono mai stata tanto attaccata alla vita come quando ho raccontato la morte. Per tutto quello che ti toglie, la guerra questo te lo regala. Per questo mi ritengo fortunata e cerco di raccontarlo ai figli di mia sorella e alle persone che amo. Magari non conosco Fedez e la Ferragni, ma voglio trasmettere loro questo, la voglia di vivere".

Per la Goracci, lascia intendere, il giornalismo è molto più che un mestiere. Da quando a 9 anni, lesse “Niente e così sia”, di Oriana Fallaci, regalatole dalla madre, la sua vita è fatta di partenze e arrivi, ma soprattutto della passione di raccontare “la storia nel momento in cui accade”. “E questo per me è un enorme privilegio”, spiega. Anche se, aggiunge, “quando torni vorresti ripartire e quando sei là non ce la fai più”. Ma questa è la passione che sente dentro, dopo gli insegnamenti della madre e le storie di guerra raccontate dal nonno. Per ricaricare le pile, l'inviata confessa di tornare nella sua terra d'origine, la Maremma toscana, perché "il bello è un salvacondotto". 

Come raccontare le donne iraniane, molto prima delle proteste iniziate con la morte di Masha Amini, a settembre 2022. “Io in Iran vado dal 2006. E tutto mi è sembrata una preparazione a quel che è successo l’anno scorso. Le donne valgono la metà di un uomo, nell’eredità, nel valore della testimonianza in tribunale e nel prezzo del sangue (quello che serve per comprare l’impunità per un omicidio). Ma in Iran la rivoluzione è donna”. E protestano, rischiano in prima persona, “per un bacio rubato in un vicolo - come canta il musicista iraniano Shervin Hajipour, in ‘Baraye’, cioè “Per” - per gli alberi dei viali di Aleppo, per i piccoli profughi afgani costretti a rimestare nella spazzatura, per i prigionieri politici”. Il velo, spiega la Goracci, è solo la punta dell’iceberg. Lì c’è una generazione in ebollizione che ha scavalcato il coraggio delle mamme. Non sopportano più l’ipocrisia: vogliono vivere nello spazio pubblico quello che già fanno nel privato. Due giornaliste sono finite in carcere: una perché ha abbracciato i genitori di Masha. L’altra perché è andata a suoi funerali. Ma le donne sono abituate a combattere, sono caparbie e indomite. Se in Iran qualcosa cambierà, sarà merito delle donne. “Quando ancora eravamo agli esordi di Internet – prosegue – ho raccontato le storie di queste donne in prima linea. L’operatore riprendeva stando in auto e io scendevo in piazza con i manifestanti, anche se ci dicevano di non farlo”. Ma fare i giornalisti in quei luoghi significa anche prendersi dei rischi, “perché non basta essere sul posto”. 

Dall’Iran all’Ucraina, una guerra narrata molto dai free lance in prima linea, che erano là sul posto, anche perché, fa presente la Goracci che “i pochi che sono andati non avevano elmetti e giubbotti antiproiettile a sufficienti”. Un conflitto, aggiunge, “che abbiamo raccontato soprattutto da un solo punto di vista. Ora dobbiamo dirci che la Russia ferita è pericolosissima e non ci vengono spiegati gli obiettivi della guerra. Quindi occorre sederci subito a un tavolo di pace”, per cercare di fermare il conflitto. 

C’è un altro risvolto della guerra che sta insanguinando l’Europa che la Goracci mette in evidenza, con il suo sguardo obliquo e “storico”, anche scomodo: “dalle stesse frontiere attraverso le quali abbiamo accolto i profughi ucraini, bianchi e cristiani, fino a qualche anno fa sparavamo ad altri profughi, di pelle più scura, che l’Europa non ha mai voluto”.

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