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Violenza sulle donne. Vaccaro (Censis): “Serve anzitutto un cambiamento culturale”

È necessario un profondo cambiamento, anzitutto culturale, che coinvolga tutti, a partire dagli uomini. E per le vittime servono misure di tutela più stringenti ed efficaci, oltre al potenziamento delle reti di protezione e di sostegno. Parla Ketty Vaccaro, responsabile area Salute e Welfare del Censis

Foto Siciliani-Gennari/SIR

Anche quest’anno il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, arriva preceduto da una drammatica scia di sangue: da inizio gennaio sono 109 le donne morte per mano di un uomo, una vittima ogni tre giorni, ma il tragico bilancio è destinato a salire. Oltre ai comportamenti violenti che sfociano nell’epilogo fatale del femminicidio, esistono molte altre forme di violenza perpetrate dal partner (o ex) contro la donna: “Violenza fisica, sessuale, stalking, ma anche violenza psicologica mediante prevaricazioni, intimidazioni, umiliazioni e ricatti”, spiega Ketty Vaccaro, responsabile area Salute e Welfare del Censis.

Secondo l’Istat, più di un quarto delle donne tra i 16 e i 70 anni è stata in qualche modo vittima di aggressioni fisiche o morali; un dato che offre la misura della dimensione culturale della violenza di genere. Intanto il 23 novembre la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha annunciato l’arrivo in Consiglio dei ministri, probabilmente già la prossima settimana, di un nuovo pacchetto con norme e misure più incisive.

Dottoressa Vaccaro, perché, pur nelle sue diverse sfumature, la violenza sulle donne è così diffusa?
Perché è legata ad una profonda matrice culturale, ad uno stereotipo ancestrale maschile che non consente di accettare l’evoluzione del ruolo femminile e fa scattare in diversi uomini l’impulso a riaffermare, tramite la violenza, il proprio “potere” nei confronti di donne che sembrano voler prendere in mano la propria vita. Sia per la volontà di mettere fine ad una relazione, ma anche, più semplicemente, per il desiderio di affermarsi nel proprio lavoro. In questi maschi, un tempo rassicurati dall’asimmetria dei ruoli, la progressiva acquisizione di libertà e autonomia da parte della donna innesca una sorta di corto circuito mentale. Quando la situazione sembra loro sfuggire di mano, scatta l’urgenza incontrollabile di ribadire, per dirla in modo molto esplicito, “chi comanda e chi deve ubbidire”.

Una sorta di maldestro tentativo di riappropriazione dell’esercizio di un potere - o di un possesso - che rischia di venire meno?
Sì e che purtroppo in molti casi sfocia in violenza omicida. Tuttavia, dal nostro osservatorio posso dire che al di là di questi casi estremi, un problema c’è anche in coppie “normali” nelle quali non si esercita alcun tipo di violenza. Tranne che nelle generazioni più giovani, nella coppia-tipo quarantenne, nonostante la parità acquisita a livello “esterno” (economico e professionale), in ambito domestico si tende ancora a riprodurre un modello sbilanciato di suddivisione dei ruoli: i carichi familiari - gestione della casa e dei figli - ricadono ancora per lo più sulle donne.

Dunque anche gli uomini più “acculturati” fanno ancora fatica a “rivedere” i ruoli maschile e femminile all’interno della famiglia?
Sì e la mancanza di questa “rinegoziazione” rivela la difficoltà di tutta la società italiana a fare un salto rispetto ad una riproposizione dei modelli di genere.

Per tornare ai femminicidi: lei non crede al “raptus” improvviso…
La violenza non nasce dallo scatto d’ira. Certamente un avvenimento - in particolare l’abbandono o la minaccia della donna di volersene andare con i figli - può costituire l’elemento precipitante, il detonatore, ma alla base c’è un substrato culturale legato al predominio di genere ed è su questo che dovremmo lavorare.

Un paio di anni fa il cosiddetto “Codice rosso” ha innovato e modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, corredandola di inasprimenti di sanzione; tuttavia gli ultimi mesi, e in particolare i più recenti episodi, hanno dimostrato come questo nuovo strumento non abbia aumentato la tutela delle donne…

Con la legge (n. 69/2019, ndr) sono stati fatti grandi passi in avanti, però la sua applicazione mostra delle falle e lascia margini di miglioramento significativi. Se pensiamo ai casi più recenti: uno degli assassini aveva avuto un provvedimento di divieto di avvicinamento, un altro era agli arresti domiciliari, eppure hanno potuto raggiungere le loro vittime e agire indisturbati. Questo è un aspetto al quale occorre dare risposta per evitare che una donna che ha denunciato si senta non protetta e addirittura più in pericolo. Ma non l’unico.

Gli altri?
Abbiamo anche un numero verde (1522) e centri antiviolenza nelle Asl. Ma per funzionare in modo efficace devono essere potenziati e sostenuti con adeguate risorse economiche e di personale. Così come le case rifugio: una denuncia fa scattare nel denunciato un supplemento di ira e aggressività; allo stesso modo un divieto di avvicinamento. Non basta l’ingiunzione formale, ci vuole un intervento di tutela reale le cui modalità di attuazione sono rimesse agli organi competenti, altrimenti le donne si sentiranno ancora più esposte e non denunceranno più.

Non crede serva anche una rivoluzione culturale?
Questa è la cosa più importante. L’educazione è strategica, a partire dalla famiglia e dalla scuola. Ma è un processo complesso, richiede tempi lunghi e viene influenzato dal clima che si respira. Se in famiglia si ripetono gli stessi stereotipi “maschilisti”, o si vive in un’area deprivata dove a scuola dominano bulletti che ripropongono modelli di supremazia maschile, è facile che questi schemi vengano interiorizzati. Il rispetto (o non rispetto) della donna si impara dalla relazione tra i propri genitori, si impara (o disimpara) anzitutto in famiglia. Ma le relazioni tra i generi si imparano anche a scuola e nei luoghi di aggregazione dei ragazzi: è qui che deve cambiare il linguaggio.

Un processo che riguarda le nuove generazioni. Abbiamo parlato di sostegno e protezione delle donne. Con gli uomini maltrattanti che cosa si può fare?
Cercare di dare voce al loro disagio, a ciò che stanno vivendo come una perdita di punti di riferimento. Per gli uomini non è facile elaborare questo cambiamento di ruolo. Tranne una percentuale di “irriducibili”, impermeabili a qualsiasi intervento,credo che un servizio al quale potersi rivolgere in caso di difficoltà o disagio potrebbe essere di grande aiuto per molti di loro.

Fonte: Sir
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