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24 ottobre

Giornata missionaria mondiale, la testimonianza: "La nostra presenza in India"

Pubblichiamo un testo di padre Lorenzo Buda, missionario cesenate della Piccola famiglia della Resurrezione, in Kerala dal 1993

Padre Lorenzo Buda (al centro) con le sorelle e i fratelli indiani

Alla vigilia della Giornata missionaria mondiale (domenica 24 ottobre), pubblichiamo di seguito un testo del cesenate padre Lorenzo Buda, missionario della Piccola famiglia della Resurrezione, in India dal 1993. Sul Corriere Cesenate n. 38, di giovedì 21 ottobre, è pubblicata un'intervista a padre Lorenzo, ora nella casa madre di Valleripa (Mercato Seraceno), in attesa di tornare, fra pochi giorni, il 26 ottobre, in India.

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Tutti i Cristiani sono missionari

Ogni cristiano, in forza del Battesimo, è per natura “missionario”. È mandato ad annunciare la gioiosa notizia - il Vangelo - a tutti coloro che incontra, ad annunciarla con la sua vita prima di tutto (nell’ambiente e nel lavoro/professione in cui si trova, in famiglia o in comunità, nel carisma del matrimonio o in quello della castità per il regno dei cieli) così come Gesù ci ha detto: Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi (Gv 20,21), e Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura (Mc 16,15).

Più uno si lascia guardare da Gesù e ascolta la sua Parola, il suo: Seguimi!, come gli apostoli (vedi la chiamata di Matteo in Mt 9,9) e più - chiunque egli sia - riceve da lui lo Spirito Santo per potere essere - lì dove vive - testimone del Vangelo (dell’Amore del Padre) fino a dare la vita, proprio come Gesù: Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,45).

È come figli e figlie della nostra Chiesa madre di Cesena-Sarsina, che trent’anni fa siamo andati in India e siamo stati accompagnati dalla preghiera, dall’amore e dall’aiuto (anche in denaro) di tanti nostri fratelli e sorelle, soprattutto dai Vescovi e, in particolare, del Vescovo e Padre Douglas, il primo che è venuto in India a farci visita, facendoci il dono anche di celebrare una Eucarestia per noi. Nella nostra fragilità e nel nostro stato di umiliazione, Gesù ci ha fatto sperimentare, specialmente in questi ultimi tre anni - tramite il nostro Padre Douglas - la verità  consolante del salmo 22(23): Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.

Presenza in Kerala

Il padre Orfeo ha iniziato la nostra presenza nel Sud-India, nella foresta delle montagne del Kerala, all’inizio del gennaio 1992 e poi, rientrato in Italia, nel maggio 1993 ha chiesto a me e a due sorelle di continuare il servizio alla due comunità nascenti dei fratelli e sorelle indiani. Incardinati nella Diocesi di rito latino di Vijayapuram, in Kerala nel Sud-India, fin dall’inizio della nostra presenza nel 1992, abbiamo avuto un rapporto fecondo non solo con le Chiese Orientali Cattoliche di rito siro-malabarico e siro-malankarico, ma anche con quelle Ortodosse e pure con quelle della Riforma. Numerosi sono stati i vescovi, sia cattolici che ortodossi, che ci hanno fatto visita. Più d’uno di essi ci ha invitato a tradurre nella lingua locale, il malayalam, i Detti dei Padri del deserto, la Scala del Paradiso di Climaco, gli Scritti dell’Abbà Doroteo, l’Akatisto, la Filocalia e San Serafino di Sarov (il suo dialogo con Motovilov).

In questi trent’anni di vita molti ospiti sono venuti a farci visita e a stare con noi per alcuni giorni o anche per periodi lunghi di vita con noi, soprattutto giovani, famiglie, sacerdoti e religiosi (diversi vescovi o superiori di ordini religiosi ci hanno mandato sacerdoti in difficoltà). Un rapporto profondo e di grande grazia abbiamo con il nostro padre e vescovo Sebastian che nel 2006 è venuto da noi per fare una settimana di ritiro in preparazione alla sua ordinazione episcopale. Fu poi il vescovo precedente, Peter, a darci il nome Udhanashram ("monastero della Resurrezione").

Chiesa in Kerala, ottagonale in stile indiano

Chiesa in Kerala, ottagonale in stile indiano

Immersi nella cultura indiana

Dal momento che non era possibile rimanere in India se non con un visto da studente, sia io che Maria Maddalena (Francesca Siroli), responsabile della comunità delle sorelle dal 1998, abbiamo preso contatti nel 1999 con la Mahatma Gandhi University per poter fare studi accademici sull’induismo; ma fu poi il Rettore magnifico della stessa Università, un induista, a consigliarci di non fare studi sull’induismo - in quanto, in quella facoltà, avremmo potuto trovare problemi da parte di alcuni fanatici - ma di iscriverci al Centro Ecumenico di Lingua e Letteratura Siriaca che era stato riconosciuto come College della Gandhi University. Così Maria Maddalena ha concluso gli studi accademici con una tesi su San Giacomo di Sarug (su una sua omelia sul Padre Nostro) e io su Sant’ Efrem e la primitiva tradizione ascetica della Chiesa siriaca.

Pur non avendo avuto il tempo di conoscere i testi della tradizione induista come avremmo desiderato (io ho letto solo la Bhagavat-Gita e qualcosa di Gandhi), fin dall’inizio della nostra vita comune all’Udhanashram - guidati dalla Scrittura e aiutati dai Padri, dal magistero del Concilio Vaticano II e dagli insegnamenti e dall’esempio di don Giuseppe Dossetti – abbiamo cercato di lasciarci guidare dal mistero del Verbo che ha assunto la nostra carne spogliandosi della sua gloria. Guardando a Gesù, abbiamo cercato di abbracciare la fatica di spogliarci di noi stessi, della nostra cultura e di morire alla nostra superbia, per imparare ad essere cristiani, aprendoci ai doni che Dio ha fatto con abbondanza all’India. Ricordavamo in particolare quando il padre Giuseppe Dossetti diceva che non si possono avvicinare i mondi delle religioni orientali senza una immersione nella Scrittura e nell’Oriente della rivelazione biblica; diversamente si rischiano grandi sbandamenti e non si può avere un vero dialogo - aperto e nell’amore - con i nostri fratelli di altre tradizioni religiose.

L’India è una terra di grandi ricchezze e risorse, soprattutto spirituali; penso in particolare agli insegnamenti e alla pratica della Non-violenza (A-himsa), dono che il Dio dei nostri padri ha infuso in questo popolo da millenni, prima ancora di chiamare Abramo. La Non-violenza ha trovato poi nel XX° secolo il suo testimone-martire più luminoso in Mahatma Gandhi. Purtroppo la globalizzazione e tutto il resto, specialmente tramite i media (che in sé sono un vero dono di Dio), penetra ovunque e spesso distrugge, cancellando o perlomeno deturpando i doni dati all’India per l’umanità intera. E questo anche nella foresta dove noi siamo e nei villaggi che sono attorno a noi. Quasi un secolo fa, Gandhi diceva che i villaggi erano il cuore della nazione, dove l’India non era stata ancora contaminata dal modello occidentale. E non è a caso che la cultura dominante stia pian piano cancellando anche la memoria di quello che Dio ha dato all’India tramite Gandhi (anche se c’è un piccolo resto che la conserva).

Quando nel 2016 c’è stata all’università la discussione della mia tesi su Sant’Efrem e la primitiva tradizione ascetica siriaca, nella relazione ho fatto un parallelo fra Efrem e Gandhi, come testimoni di Dio, del Dio Amore e Verità, martiri capaci di parlare al cuore degli uomini e delle donne di tutti i tempi e del nostro tempo. Il Decano della Facoltà di Lettere, un induista, prese la parola dopo la mia relazione e disse ai presenti: “Sono stupito e commosso nel vedere che, mentre noi indiani abbiamo dimenticato Gandhi, uno che viene dall’Occidente ci testimonia che cosa vuol dire avere la memoria di Gandhi nel cuore. Gandhi è spesso sulla nostra bocca, e nei nostri discorsi ripetiamo che è il padre della nostra nazione, ma i suoi insegnamenti e l’eredità che ci ha lasciato con la sua vita sono purtroppo lontani dalla nostra prassi quotidiana.”

Vita all’Udhanashram

Riguardo alla vita di noi sorelle e fratelli all’Udhanashram: le sorelle abitano in una casa-monastero verso la cima della montagna e noi fratelli siamo distanti da loro a poco meno di 20 minuti di cammino. Ci troviamo insieme ogni giorno per la Messa, unita al canto dei salmi di Lodi, dalle 5,45 alle 7,30 nei giorni feriali (alla domenica preghiamo insieme anche l’ufficio vigilare della Resurrezione, oltre all’Eucarestia che celebriamo dalle 8,30 alle 11. Ci troviamo insieme anche per incontri/assemblee dove tutti, fratelli e sorelle, sono chiamati, in modo sinodale, ad edificare la vita della comunità.

La gran parte del lavoro di ogni giorno è dedicato a quello manuale: in cucina, nei campi, nell’orto, nella manutenzione della strada (le sorelle allevano anche le capre e le galline che provvedono per noi tutti uova, latte e yogurt), nella pubblicazione di libri e - lavoro questo più importante di tutti - nell’accogliere e servire gli ospiti; una o due ore al giorno si dedica anche allo studio. Siamo in mezzo a gente semplice (quasi tutti agricoltori e braccianti) e spesso bisognosa di aiuto, soprattutto per le spese mediche e scolastiche a cui lo stato non provvede, spese che gravano oltre ogni dire sulla loro vita familiare. Facciamo quel poco che possiamo per aiutarli anche economicamente, ma soprattutto per stare loro vicino con la preghiera e l’amore fraterno.  

Le sorelle alle prese con le capre

Le sorelle alle prese con le capre

Una ricchissima tradizione religiosa

Vivendo in una nazione in cui l’80 per cento è indù, cerchiamo di fare tesoro della ricchissima tradizione religiosa induista che ha plasmato la vita sociale di tante generazioni; tradizione che, nonostante tutti i veleni che circolano, testimonia ancora oggi come l’anima di questi nostri fratelli e sorelle sia segnata da una apertura a Dio e alla realtà del mondo invisibile che in Occidente normalmente non si trova.

Faccio qualche esempio di alcune realtà di questa tradizione (realtà fatte pure di segni e simboli) che noi cerchiamo di custodire, anche perché sono in sintonia profonda con la Scrittura, con Gesù, Parola del Padre:

  • Cerchiamo di custodire la semplicità (diremmo noi: evangelica) dell’abito proprio del monaco o monaca indù, che è di color cavi. Questo colore va dall’arancione a un colore più spento, che va verso il giallo. Il cavi è il colore che assomiglia all’oro, simbolo di Dio. Il monaco (sannyasi, in sanscrito significa “colui che rinuncia”) è colui che rinuncia a tutto per avere Dio, e testimonia questo anche nel colore dell’abito. Faccio una parentesi: secondo il Vangelo questa è la qualifica di ogni cristiano, anche se poi ciascuno la deve incarnare lì dove è chiamato dal Signore. Pensiamo ad es. a quando Gesù dice, e lo dice per tutti: Se uno vuol venire dietro a me rinunci a se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua (Lc 9,23).
  • Quando preghiamo, sia nell’Eucarestia come nell’Ufficio Divino e nella preghiera personale, stiamo gran parte del tempo seduti a terra sopra un tappeto di corda (corda ricavata dalla pianta del cocconut); mentre ci inginocchiamo e ci prostriamo durante la consacrazione nella Preghiera Eucaristica,  e stiamo in piedi quando cantiamo i Salmi (con la libertà di sedere per chi non può). Appena sono arrivato in India sono stato sedotto dalla bellezza di stare per terra (come fanno i monaci induisti e come fa la gente semplice, anche in chiesa). Durante la lectio sto seduto in posizione più o meno yoga (anche se noi non pratichiamo lo yoga); mi alzo però ogni tanto per fare qualche prostrazione o pregare prostrato. Sento che stare per terra è il mio posto, mi aiuta a lasciarmi sedurre dall’umiltà di Gesù, dal suo dare la vita servendo… E allora il Padre, che in Paradiso vuole solo i piccoli, gli umili (cioè i peccatori che si convertono al suo Amore), i bambini (cf. Mc 10,13-16), si curva sul nostro stato di umiliazione, come canta la Vergine, nostra Madre, nel Magnificat (Lc 1,48). Così pure anche quando mangiamo nei pasti comuni stiamo seduti a terra sul tappeto di corda (chi non ce la fa, si mette a sedere su un piccolo sgabello).
  • Nella tradizione orante e musicale induista è molto presente la realtà del mantra, della preghiera ripetitiva, mormorata o cantata, corrispondente alla nostra lectio divina che dovrebbe essere prima di tutto una mormorazione, ripetizione e memorizzazione amorosa della Parola, come ci testimonia anche il Salmo 1 e quanto Luca al cap. 2 del Vangelo dice per due volte della Vergine Maria (Lc 2,19.51). Una mattina presto, nel 1993, quindi agli inizi della mia vita in India, mentre verso le 4,30 salivo dal nostro villaggio fino alla casa dove stavamo noi fratelli, sono rimasto colpito sentendo che giù a valle, da un tempio induista, veniva trasmesso un canto che ripeteva di continuo: “Sharanàm, Sharanàm… abbandono, abbandono, abbandono a Dio”. Più volte in tutti questi anni ho costatato come la preghiera induista, anche in occasione di funerali, sia segnata da una ripetizione di brevi frasi, a mo’ di mantra, che imprimono nel cuore la memoria di Dio e rendono vitale il rapporto con lui.
  • Come si può osservare facilmente anche tramite i media, gli indiani amano marcare la fronte con segni e polveri di diversi colori; anche questo simbolismo vuole esprimere il rapporto verso Dio  o le varie divinità. Anche nella Bibbia il segno, il sigillo, il marchio, è una realtà che esprime il mistero del nostro essere figli di Dio, sua eredità prediletta, e questo soprattutto tramite il sigillo battesimale, il segno della croce, ecc. Noi sorelle e fratelli all’Udhanashram ci segniamo la fronte tre volte al giorno: al mattino all’inizio dell’Ufficio vigilare con la polvere tratta dal legno di sandalo (di colore giallo-oro, simbolo della divinità, come il color cavi): questo ci ricorda che col Battesimo siamo diventati figli di Dio, siamo stati divinizzati. Poi alla fine dell’ora sesta e prima del pranzo ci marchiamo la fronte con una polvere rossa che simboleggia per gli induisti la Sapienza di Dio e per noi cristiani la Sapienza della Croce. Infine alla sera al termine di Compieta ci segniamo (chi guida la preghiera porge ad ogni sorella o fratello una scatolina con queste polveri con cui ciascuno si marca la fronte) con le ceneri, benedette all’inizio della Quaresima. Le ceneri nella tradizione induista sono segno di purezza, in quanto la cenere è ciò che rimane dopo che la vittima sacrificale è stata bruciata. Noi riceviamo le ceneri sulla fronte dopo aver cantato, verso la fine di Compieta, con Gesù al Padre: “Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito”. È questo abbandono al Padre che ci rende puri, sacrificio a lui gradito, nell’attesa che il Signore venga e, se verrà a prenderci con sé nella notte, ci trovi vigilanti.
  • L’induismo è marcato, naturalmente, dall’ascesi. Accenno solo ad un aspetto: i monaci indù sono vegetariani (molti si astengono anche dai latticini e uova). Soprattutto nel passato non solo gli induisti ma anche molti cristiani in India avevano un regime alimentare rigoroso (ad es. i tre giorni del “Digiuno di Giona”, che facevano prima della Quaresima; passavano il giorno a lavorare  e pregare e a sera dopo la Liturgia comune prendevano l’unico pasto fatto solo di riso) tanto che all’arrivo dei missionari dall’Occidente, dal 1500 in poi, molti rimanevano scandalizzati nel vedere come essi mangiava carne e avevano un regime alimentare lontano dal loro. Noi all’Udhanashram siamo vegetariani, mangiamo però latticini e uova come ho già detto sopra; quando andiamo fuori mangiamo quello che ci viene offerto. Per motivi di salute mangiamo anche pesce e, più raramente, carne.
 Testimoni di unità

Proprio in forza della parola di Gesù sopra ricordata (Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi, e Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura) il cristiano non può non essere che missionario. Per vivere poi in verità questa missione che il Signore affida a ciascuno di noi e a tutti noi insieme come suo Corpo (la Chiesa), dobbiamo tenere lo sguardo su Gesù e sul suo rapporto col Padre, diversamente la missione (lì dove il Signore ci chiama: in famiglia, in comunità, sul lavoro, nel lasciare la nostra terra per andare in altre nazioni a testimoniare il Vangelo cercando di dare la vita per amare tutti, ecc.) diventa un affare nostro, una nostra impresa; e quindi, alla fine, una cosa avvilente e deprimente.

Noi fratelli e sorelle della Piccola Famiglia della Resurrezione (sia quanti vivono in comunità e sia quanti vivono in famiglia), soprattutto in questi ultimi anni di prova e umiliazione gloriosa - gloriosa, perché la croce di Gesù è la nostra gloria, la nostra gioia, ed essa solamente ci apre le porte del Paradiso - abbiamo sperimentato più che mai come la missione che il Padre affida a noi tramite il Figlio non può che essere una missione vissuta nella Chiesa nostra madre, una missione che poggia sul fondamento posto dal Cristo risorto, gli Apostoli, per noi in Cesena-Sarsina il vescovo e padre Douglas in comunione con il vescovo di Roma, il nostro papa Francesco.

Per poter rispondere alle grandi sfide che oggi, a tutti i livelli, ci troviamo ad affrontare, dobbiamo lasciare il nostro individualismo ed egocentrismo esasperato da cui possiamo essere liberati solo guardando - tramite la Parola di Dio - alla vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per ricevere grazia ed imparare ad essere anche noi Uno in loro e come loro, capaci poi di testimoniare ai fratelli e sorelle - nel nostro piccolo e con tutte le nostre ferite, peccatori come siamo - la gioia di essere immersi, già da ora, nell’unico Dio che è Amore e Verità.

Facciamo nostra allora la preghiera che Gesù ha rivolto al Padre: Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17,20-21).

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