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l'omelia è tutta sul sacerdozio

Il vescovo Douglas alla Messa crismale, citando papa Francesco: "Solo una Chiesa in movimento di uscita da sé evita la mondanità spirituale"

"Anche i buoni preti non mancano, grazie al Cielo - ha aggiunto il presule -. Quelli che sono ancora troppo rari nella Chiesa di Dio sono i Sacerdoti santi, gli ‘arditi’ del sacro Cuore, pronti a tutto accettare, a tutto sacrificare, a tutto soffrire, con  fede ed entusiasmo, a tutto compiere per amor suo e per la sua gloria, senza incertezze"

Il vescovo Douglas in una foto del messaggio di Pasqua dell'1 aprile scorso

Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell'omelia che il vescovo Douglas sta pronunciando ora in Cattedrale in occasione della Messa crismale. 

Concelebrano con monsignor Regattieri il vescovo emerito di Makeni (Sierra Leone) padre Giorgio Biguzzi e tutti i preti e religiosi della Diocesi. Partecipano anche i diaconi.

Per un imprevedibile e grave problema tecnico è saltata la diretta sul canale Youtube e sulla pagina Facebook del nostro giornale. Ce ne scusiamo con tutti. 

In avvio di celebrazione monsignor Regattieri ha ricordato il vescovo emerito Lino Garavaglia che in questi giorni è ricoverato all'ospedale "Bufalini". Inoltre ha voluto festeggiare i sacerdoti che nell'anno celebrano particolari anniversari di ordinazione: 25 anni, 50, 60 e 70. 

1. La Messa crismale al tempo del Coronavirus

Siamo in un kairos, cioè un tempo propizio per la nostra conversione (Cfr 2 Cor 6, 2). Mentre facciamo doverosa memoria di tanti fratelli e sorelle – anche qui da noi – deceduti a causa del Covid-19 – crediamo di aver vissuto, e di vivere ancora, un tempo di grazia, un tempo pieno di stimoli per la nostra salvezza.

Grazia per la collaborazione che come chiesa – sacerdoti, diaconi, religiosi e laici tutti - abbiamo dato per l’osservanza delle norme, consapevoli che era necessario dare il nostro contributo per il contenimento del virus, anche a costo della limitazione di qualche espressione di fede individuale e comunitaria. Grazie per le diverse iniziative, anche in forma digitale, che hanno arricchito questo tempo di isolamento, tenendo comunque vivo il senso di appartenenza alla propria comunità diocesana e parrocchiale.

Devo chiedere scusa ai fedeli laici se stasera li abbiamo esclusi fisicamente da questa celebrazione. Sapete quanto ci tenga a che la Messa crismale sia davvero l’espressione della comunità diocesana. Essa è “quasi epifania della Chiesa, corpo di Cristo organicamente strutturato che nei vari ministeri e carismi esprime, per la grazia dello Spirito Santo, i doni nuziali del Cristo alla sua sposa pellegrina nel mondo” (Dalle Premesse al rito della benedizione degli oli). Ma le norme di contenimento del virus ci hanno consigliato di far accedere alla Cattedrale - solo per questa circostanza – unicamente i presbiteri, i diaconi e i religiosi. Nel mese di giugno avremo due occasioni per cui ci ritroveremo tutti nella piazza della Libertà per lodare insieme il Signore.

Desidero attenermi, ora, al senso dell’atto liturgico che stiamo compiendo, l’atto omiletico: che non è - e non deve essere -  un’esposizione di piani pastorali o una trattazione di temi catechetici; vuole essere piuttosto un’eco della Parola appena proclamata. L’omelia – dice il papa nell’Evangelii gaudium - è infatti “un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita” (n. 135). E il papa auspica che “superi qualsiasi catechesi, essendo il momento più alto del dialogo tra Dio e il suo popolo, prima della comunione sacramentale. L’omelia è un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo. Chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio, e anche dove tale dialogo, che era amoroso, sia stato soffocato o non abbia potuto dare frutto” (n. 137).  Questa omelia è rivolta a voi confratelli sacerdoti e diaconi. Ma non dimentico tanti fedeli qui spiritualmente presenti grazie al collegamento via streaming e che ringrazio. In questi anni abbiamo sottolineato aspetti diversi del sacerdozio ordinato, riflettendo, di volta in volta, sul ministero della predicazione della Parola, sulla presidenza liturgica, sulla spiritualità sacerdotale, sulla guida pastorale della gregge a noi affidato, sull’accompagnamento spirituale, sulla fraternità presbiterale e così via. Desidero intrattenermi sulla bellezza e sul dono del nostro sacerdozio, mettendo in guardia me stesso e voi da alcuni rischi e pericoli che possono insidiarne o offuscarne  lo splendore.  

 

2. “Stirpe benedetta, sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio”

Stasera, la nostra attenzione si concentra su alcune espressioni che la liturgia della Parola ci ha consegnato. Il profeta Isaia parla di una “stirpe benedetta” (Is 61,9). Così ci devono vedere e considerare i fedeli laici: una comunità benedetta. Dichiara il profeta: “sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (Is 61, 6). Coloro che accosteranno i presbiteri “riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore” (Is 61, 9). E l’Apocalisse acclama: “Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1, 6). Stirpe benedetta, sacerdoti e ministri per il nostro Dio: espressioni che dicono l’eccellenza della nostra chiamata, esprimono la bellezza della nostra vocazione. Potevamo noi così poveri, piccoli e fragili, pensare di essere chiamati al suo seguito? Potevamo ardire di salire a vette così alte, se non ci fosse stata un’illuminazione, una ispirazione dall’Alto che la Chiesa ha riconosciuto chiamandoci a questo servizio? Dice san Gregorio di Nissa, parlando del sacerdote: “Mentre fino a ieri era uno della moltitudine del popolo, di colpo viene reso dottore, presidente, maestro di pietà, mistagogo dei misteri nascosti; e queste cose gli accadono senza che nulla sia cambiato nel corpo e nella forma, ma rimanendo, quanto all’apparenza esterna, ciò che era prima, ricevendo però dalla potenza e dalla grazia invisibile una trasformazione nell’anima invisibile” (PG 46, 581). “Sarete chiamati sacerdoti del Signore, sarete detti ministri del nostro Dio” (Is 61, 6). Essere riconosciuti come “stirpe benedetta dal Signore” (Is 61, 9). Riusciremo a trasmettere ai giovani, ai fedeli tutti la bellezza del nostro ministero? Forse sta qui una delle cause della crisi vocazionale che stiamo vivendo. Esortava i suoi sacerdoti san Paolo VI, quando era ancora arcivescovo di Milano: “Ricordate che siamo estremamente osservati, siamo vigilati anche là dove non crederemmo che il pubblico potesse accorgersi di ciò che facciamo, di ciò che leggiamo, di come parliamo, del come viviamo” (Omelia alle ordinazioni sacerdotali 28 giugno 1959). E un testo antico come l’Imitazione di Cristo - forse con un po’ di retorica, ma nella sostanza con indubbia ragione - riflette: “Quale grandezza, quale onore, nell'ufficio dei sacerdoti, ai quali è dato di consacrare, con le sacre parole, il Signore altissimo; di benedirlo con le proprie labbra, di tenerlo con le proprie mani; di nutrirsene con la propria bocca e di distribuirlo agli altri. Quanto devono essere pure quelle mani; quanto deve essere pura la bocca, e santo il corpo e immacolato il cuore del sacerdote, nel quale entra tante volte l'autore della purezza. Non una parola, che non sia santa, degna e buona, deve venire dalle labbra del sacerdote, che riceve così spesso il Sacramento; semplici e pudichi devono essere gli occhi di lui, che abitualmente sono fissi alla visione del corpo di Cristo; pure ed elevate al cielo devono essere le mani di lui, che sovente toccano il Creatore del cielo e della terra. È proprio per i sacerdoti che è detto nella legge: "siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo" (Lv 19,2). Onnipotente Iddio, venga in nostro soccorso la tua grazia, affinché noi, che abbiamo assunto l'ufficio sacerdotale, sappiamo stare intimamente vicini a te, in modo degno, con devozione, in grande purezza di cuore e con coscienza irreprensibile. Che se non possiamo mantenerci in così piena innocenza di vita, come dovremmo, almeno concedi a noi di piangere sinceramente il male che abbiamo compiuto; concedi a noi di servirti, per l'avvenire, più fervorosamente, in spirito di umiltà e con proposito di buona volontà” (Dall’Imitazione di Cristo, libro IV, cap. XI, 3). La bellezza e la grandezza del nostro sacerdozio sono ben significate da quel testo del Deuteronomio in cui si dice che i sacerdoti sono chiamati a stare davanti a Dio e a lui servire: In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l'arca dell'alleanza del Signore, per stare davanti al Signore, per servirlo e per benedire nel suo nome, come avviene fino ad oggi. Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come gli aveva detto il Signore, tuo Dio” (Dt 10, 8-9).

 

3. Autenticità di vita

Per continuare la nostra riflessione ci poniamo ora la domanda: come essere stirpe benedetta, come essere riconosciuti ministri di Dio? La risposta è molto semplice: con l’autenticità, essendo sacerdoti autentici e veri. Per fare una verifica personale della nostra autenticità sacerdotale la Chiesa ci ripropone stasera le stesse domande che ci fece il giorno della nostra ordinazione, a cui, allora – e spero anche ora - rispondemmo con indubitato entusiasmo: “Sì, lo voglio”. Queste domande le riascolteremo fra poco – per la maggioranza di voi - dalla bocca di un altro vescovo; ma conservano lo stesso valore di allora: Volete unirvi intimamente al Signore Gesù, rinunziando a voi stessi e confermando i sacri impegni che avete assunto liberamente? Volete essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio, adempiere il ministero della parola di salvezza, lasciandovi guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i vostri fratelli? In queste domande ritornano due avverbi e un aggettivo, importanti e fondamentali in ordine all’autenticità: intimamente, liberamente e fedeli dispensatori. Come a dire: con tutto voi stessi: anima e corpo; in modo libero e cosciente, e soprattutto nella fedeltà. L’autenticità si nutre di questi atteggiamenti. Mi pare, questa, una buona griglia per la verifica personale.

 

4. Mediocrità e mondanità: due tarli della vita cristiana e sacerdotale

Continuiamo la riflessione: l’autenticità fa a botte con la mediocrità. Questo rischio già un antico padre della Chiesa, san Gregorio Magno, lo aveva paventato: “È più gradita a Dio – diceva - un vita ardente e fervida d’amore dopo il peccato, che non un’innocenza che intorbidisce nella sicurezza”. Gli fa eco uno scrittore moderno, George Bernarnos, che ha scritto: “Uno dei principali responsabili, il solo responsabile, forse, dell’avvilimento delle anime è il sacerdote mediocre”.

E la mediocrità, a sua volta, trova terreno fertile e facile propagazione nella mondanità. In un intervento del 1991, quand’era a Buenos Aires, Papa Bergoglio aveva scritto sulla mondanità spirituale: “Il cuore non vuole problemi. Esiste il timore che Dio ci imbarchi in viaggi che non possiamo controllare. Esiste un timore della visita di Dio, un timore della consolazione. In questo modo si matura una disposizione fatalista: gli orizzonti si rimpiccioliscono a misura della propria desolazione o del proprio quietismo. Si teme l’illusione e si preferisce il realismo del meno alla promessa del più. (…) Nella preferenza per il meno che sembrerebbe più realista c’è già un sottile processo di corruzione: si arriva alla mediocrità e alla tiepidezza. (..) L’anima allora arriva ad accontentarsi dei prodotti che le offre il supermercato del consumismo religioso. Più che mai vivrà la vita consacrata come una realizzazione immanente della sua personalità. (…) La mondanità spirituale come paganesimo in vesti ecclesiastiche” (J. M. Bergoglio, Guarire dalla corruzione, EMI, Bologna 2013, pp. 38-40). E nell’Evangelii gaudium, da papa, ha ribadito: “(Questa mondanità) Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio” (n. 97).

 

5. “Marinai d’acqua dolce”

Infine, concludendo la riflessione e scusandomi della insolita lunghezza, ho trovato, in un antico libretto di spiritualità, questo testo che ora vi propongo. L’immagine a cui va in prestito l’autore mi sembra incisiva e significativa sempre in ordine all’autenticità sacerdotale. È un testo rivolto ai sacerdoti e parla della loro santificazione. Dice: “Quando un sacerdote vive in modo irreprensibile ed esteriormente edificante, ma ricusa, per quanto preso, di diventare ‘un santo’, priva Iddio d’una immensa gloria, perde un cumulo di meriti, e diminuisce per ciò stesso, in modo impressionante, la sua efficacia di apostolato. (…) Voi sapete che di preti mediocri – ‘marinai di acqua dolce’ -  per usare un’espressione di san Camillo – ne abbiamo abbastanza; anche i buoni preti non mancano, grazie al Cielo…. Quelli che sono ancora troppo rari nella Chiesa di Dio sono i Sacerdoti santi, gli ‘arditi’ del sacro Cuore, pronti a tutto accettare, a tutto sacrificare, a tutto soffrire, con  fede ed entusiasmo, a tutto compiere per amor suo e per la sua gloria, senza incertezze, senza calcoli interessati, senza compromessi, senza meschine restrizioni – ‘ferventi nello spirito’ -  pronti a consumarsi interamente e generosamente per Lui, come un cero che arde…, elevati sul candelabro, o dimenticati sotto il moggio, come apostoli o come vittime del suo amore” (Manete in mea dilectione, pp. 118-120). 

La mediocrità infatti naviga sempre in acque dolci. L’autenticità invece si prova in mare aperto. Per questo Gesù a Pietro e ai suoi futuri discepoli – quindi a noi -  ha detto “Duc in altum! - Prendi il largo!" (Lc 5, 4): al fine di “entrare - per dirla con parole di san Giovanni Paolo II - con più incisività nel cuore e nelle menti di tutti i membri della famiglia umana, e condurre tutti a quel Padre che tanto ci ha amato da donare il suo unico Figlio, il Figlio prediletto, per la redenzione del mondo” (Discorso alla Congregazione per la Dottrina della fede, 18 gennaio 2002).

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