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esequie in cattedrale

Il vescovo al funerale di don Giacomoni: "Sono andato più volte a trovarlo a Ravenna. Mi parlava della sua vita, tribolata e travagliata"

"Preghiamo per la sua anima perché il Signore assolva nella sua misericordia le sue debolezze e i suoi peccati", ha aggiunto il presule

Il vescovo Douglas Regattieri in una foto d'archivio

Di seguito pubblichiamo l'omelia che il vescovo Douglas ha pronunciato poco fa in Cattedrale durante la Messa per il funerale del sacerdote diocesano don Giuseppe Giacomoni. 

In questi ultimi anni sono andato più volte al santa Teresa di Ravenna per visitare don Giacomoni. Devo dire che ogni volta mi accoglieva con grande festa. E voleva a tutti i costi che prendessi qualcosa: un tè, un caffè, qualche biscotto. Mi portava nella sua stanza e lì, seduti, mi parlava della sua vita, tribolata e travagliata. Aveva bisogno di parlare. Oggi dopo una lunga esistenza lo accompagniamo all’ultima dimora terrena.

 

  1.  Andremo alla casa di Dio

Ora noi lo pensiamo in Dio e preghiamo per la sua anima perché il Signore assolva nella sua misericordia le sue debolezze e i suoi peccati. Lo pensiamo nel procinto di entrare in quella patria o in quella città di cui ci ha parlato il testo dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste (Cfr Ap 21, 1-5a.6b.7). Soffermiamoci su questa immagine: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, il loro Dio. Asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più morte” (Ap 21, 3-4). A questo proposito commenta sant’Agostino: “Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell'ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l'Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina” (Agostino, Discorso 256, 1.2.3).

     Il pensiero è che il desiderio di abitare la Gerusalemme celeste dà senso al nostro pellegrinare terreno. È la tensione al cielo che illumina il nostro sentiero e guida i nostri passi. Per noi non c’è separazione tra esistenza celeste e cammino terreno. È, il nostro, un unico peregrinare. C’è la fase terrena e quella celeste. Da qui comprendiamo l’anelito che muove  il cuore del salmista: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1), cioè a Gerusalemme e più in particolare, al tempio. “Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme” (Sal 122, 2). Calpestare quegli atri, entrare in quelle stanze significava già pregustare la bellezza di Dio, la gioia dello stare alla sua presenza, la consolazione di vedere il suo volto: “Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8-9).

 

  1. Un posto preparato

“Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore… Vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2).  Il vangelo che abbiamo ascoltato (Cfr Gv 14, 1-6) ci rassicura e ci rasserena. C’è un posto preparato per noi, per ciascuno di noi. Questa promessa mi dà sempre tanta consolazione. Il sapere che è prenotato un posto per me. E’ assicurato. Questo ci deve consolare e incoraggiare. E’ infatti, la prospettiva di occupare questo posto che ci dà la forza di vivere con dignità e con impegno i pochi e spesso tribolati giorni della nostra vita.

“È nelle ore quotidiane della vita terrena, infatti, che costruiamo ciò che ci attenderà. Dobbiamo considerare ogni giornata come fondamentale e decisiva e quindi viverla in pienezza, senza sprechi o infamie… È nota la leggenda, presente in una favola di Esopo, che immagina che il cigno, dal verso sgraziato, prima di morire, moduli un canto armonioso. Si dovrebbe essere capaci di intessere il ‘canto del cigno’ non solo in occasioni estreme ma più spesso, considerando appunto ogni giorno come se fosse il più importante o l’ultimo a noi assegnato” (Ravasi, Scolpire l’anima, Mondadori, p. 371).

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