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Giornata diocesana della scuola cattolica

Monsignor Camisasca a palazzo Ghini

Ieri sera, a palazzo Ghini, monsignor Massimo Camisasca (vescovo di Reggio Emilia) è intervenuto sul tema “Educare nel cambiamento d’epoca”. Proponiamo un ampio sunto della relazione

Monsignor Camisasca a palazzo Ghini

Ieri sera, a palazzo Ghini, monsignor Massimo Camisasca (vescovo di Reggio Emilia) è intervenuto sul tema “Educare nel cambiamento d’epoca”.

L’incontro, organizzato nell'ambito delle iniziative per la Giornata diocesana della scuola cattolica, è stato assai partecipato da docenti, studenti e genitori.

pubblico per camisasca a palazzo ghini

Di seguito alcuni stralci dell'intervento di monsignor Camisasca raccolti per noi da Mauro Borghesi.

Come affrontare la fragilità degli educandi?, la domanda posta dal vescovo di Reggio Emilia.

La prima causa è la crisi del concetto di autorità a partire dagli anni '60, forse dovuta alla concezione borghese e formale dell’autorità, ovvero “devi obbedirmi perché sono papà”. Senza coinvolgimento diretto con le persone. Se leggiamo Pirandello vediamo cos'era diventata la famiglia borghese nell’Ottocento: molto distanti gli uni dagli altri, non c’era coinvolgimento o passione che teneva uniti i destini. Dio stava già scomparendo dal cielo dell’Europa. Quando Dio scompare anche l’uomo scompare perché non si possono vivere relazioni così importanti come quelle familiari se non si riconosce qualcosa che viene prima di noi. Se si basa sulla buona volontà e sulla razionalità alla fine tutto si corrompe. L’eclissi dell’autorità è stata preceduta da quella di Dio. Un Dio che era visto e temuto da molti cristiani come un Dio punitore e quindi rigettato dagli altri. Se non c’è Dio non c’è neanche il padre. Il padre assente e il padre violento.Un’altra causa è che l’assenza di paternità e maternità si è riflessa nella scuola. La lampadina che si accende a segnalare questa crisi è il venir meno della trasmissione della passione. Una scuola che ha scelto deliberatamente che il suo scopo non fosse educare quanto semplicemente comunicare nozioni e strumenti senza il senso degli stessi. Il senso apparteneva alle scuole ideologiche e “noi siamo una scuola neutra quindi ci guardiamo bene dall’educare”. Dalla scuola a sua volta si è trasmesso alla Chiesa. Non sappiamo dove stia l’autorità: a molti sfugge il rapporto fra autorità e libertà che sta al centro della questione educativa. Vorrei partire da qui per una proposta educativa. Autorità e libertà sono due esperienze che si contraddicono o si escludono. La maggioranza sostiene questo. Bisogna stringere lo spazio all’autorità per far spazio alla libertà. Chi sono io? Sono Dio, oppure sono creatura? Questa è la questione umana senza la quale non si può porre la questione educativa. C’è qualcosa o qualcuno prima di me? Nessuno dice esplicitamente di essere Dio, ma a volte lo pensa profondamente o agisce come se lo pensasse. Si tratta del termine ultimo della propria esistenza: si parla di vittoria dell’individualismo. Non si parla neppure di persona se tutto nasce e muore con me: c’è solo l’individuo. Se ogni individuo è radice è fonte di ogni giudizio di bene, male e felicità, è molto difficile stabilire in modo significativo il rapporto con gli altri; allo stesso modo, trasmettere qualcosa. Se io vengo dal nulla e torno nel nulla non c’è alcuna trasmissione se non il tentativo perché tutta la vita contraddice questa filosofia nichilista, se non il desiderio che il mio lavoro, le mie opere, i miei figli continuino: ma perché? Per quale scopo? Il cammino educativo si staglia dentro la domanda che ho posto: ma io sono io o no? Ma questa domanda non ha senso, non è intelligente. Piuttosto: quale rapporto ho io con le cose? La questione vera che dobbiamo porci se vogliamo essere educatori, perché il punto di partenza per educare non sono i bambini o ragazzi, siamo noi: essi loro sono ovviamente centrali ma non possono essere il termine, in quanto non hanno coscienza di cosa voglia dire educazione. Se ne può parlare solo quando si rendono conto di aver ricevuto qualcosa e sono chiamati a riconsegnarlo. Vivere è ricevere e trasmettere o per dirla con i termini del Vangelo “trafficato”. Ricordiamo la parabola dei talenti! Il significato ultimo del Vangelo cioè della vita stessa di Gesù è che noi siamo il frutto di una libertà amante. Questo è il primo passaggio. 
Siccome molti si dicono atei, porre la questione di Dio sembra un ultrasuono. Qual è il rapporto che hai con la realtà, con le cose? Gesù chiede se non capite le cose della terra come sperate di capire le cose del cielo? Dobbiamo partire dalla terra! Si è educatori in una posizione di fronte alla vita che possiamo chiamare apertura al mistero. La seconda cosa è che oggi ha straordinaria importanza che questa apertura all’infinito e al mistero deve diventare nell’educatore parola, cioè iniziale consapevolezza. Non può essere soltanto sentimento. Oggi molti vivono solo di sentimenti che nascono e tramontano velocemente è quasi nulla diventa consapevolezza, parola. Dobbiamo aiutare i ragazzi e a volte noi stessi a scoprire il fascino di scrivere, parlare, dare suono e sentiero al sentimento: solo così può cominciare un’educazione. La prima cosa che Dio ha fatto con Adamo è stata andare a dare il nome agli animali. È un’intuizione pedagogica importante. Se porto un bambino a vedere una cosa specifica non posso chiamarla “quella cosa lì” perché porta una cosa grande che è la gioia del pensare, prima dell’incontro e poi del pensare cioè dare un nome alla cosa incontrata. Costruire una riflessione, ricordare una cosa ed ecco l’importanza della lettura. Perché molti ragazzi hanno paura della vita e delle responsabilità? Perché non sanno dare nome alle cose. Sembrano dei pesi immensi che li schiacciano. Non sanno chiamare le cose, dare un nome. Alcuni ragazzi hanno paura dell’interazione col mondo si rinchiudono per mesi o anni nella stanza ed interagiscono solo tramite computer o smartphone: questa tendenza è nata in Giappone, dove non si ha paura di lasciare per strada migliaia di ragazzi che temono che la vita li abbia abbandonato. Rinunciano a vivere, ad incontrare, a dare un nome alle cose. Un ragazzo che ne è uscito racconta di essere stato salvato dalla musica, quando ha iniziato a scrivere delle parole; altri con lo sport, in particolare di strada. La terza cosa che sento molto importante è il senso del tempo da passare con l’altro. L’educazione, cioè una trasmissione di un tesoro che ho dentro non può essere semplicemente una comunicazione di pensieri: è molto importante ma non basta. L’educazione è una condivisione spazio temporale. Si vive sotto uno stesso tetto; gomito a gomito; si impara tutto il bene e anche il male che può venirmi dall’altro; a difendersi; a relazionarsi e dare un nome alle cose che si sono incontrati. Quando incontro i padri e le madri chiedo quante volte ti sei rotolato nell’erba col figlio? Quante volte avete fatto la lotta, lo avete visto giocare a pallone? Non si sta più assieme, o c’è lo smartphone, la stanchezza, la delusione della vita... non credo che l’educazione sia oggi impossibile, è difficile! Cosa c’è di più entisiasmante che trasmettere quello che ha mosso la mia vita a mio figlio? Trasmettere vuol dire imparare di nuovo: non si può trasmettere un’esperienza semplicemente ripetendola: bisogna riscoprirla! Ai preti della San Carlo che vanno in Kenya io dico “se voi pensate di raccontare là queste stesse cose tradotte vi sbagliate: voi dovete morire e rinascere per poter vivere queste cose con loro”.

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