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Come porsi, da cristiani, di fronte all'immigrazione?

La lettera integrale di Domenico Tallarico (presente in forma ridotta nel Corriere Cesenate del 30 agosto 2018) sui temi della cittadinanza e immigrazione.

Foto AgenSir

Gentile direttore,

le polemiche di questi ultimi tempi sugli immigrati mi hanno interrogato molto su come stare davanti da cristiano a questi eventi e vorrei condividere una breve riflessione che parte dalla mia esperienza personale.

Mio padre tra gli anni 50 e 60 è partito dalla Calabria verso la Svizzera per cercare un lavoro dignitoso che gli permettesse di poter guardare al futuro con speranza. Dopo essersi sposato ha portato anche mia madre in Svizzera e lì dopo qualche anno siamo nati io e mio fratello.

In un paese come gli Stati Uniti sarei diventato automaticamente cittadino svizzero per effetto dello ius soli, ma in Svizzera per diventare cittadini c’è una procedura lunga e complessa. Ovviamente ho anche tanti parenti sparsi per il mondo tra nord e sud America che non ho mai incontrato. In quegli anni (ma anche oggi sembra così per molti giovani) non c’era lavoro e partire per un altro paese sembrava l’unica soluzione possibile per poter avere un futuro dignitoso. Oggi queste persone vengono chiamate migranti economici, da ben distinguere rispetto ai rifugiati su cui più o meno anche tutte le forze politiche sono d’accordo nell’accoglienza.

Certo la situazione dei miei genitori non può essere paragonata a quella di tante persone che in questi anni hanno attraversato il mare Mediterraneo anche morendo. Un italiano a quei tempi partiva sapendo che comunque c’era molto spesso qualcuno in un altro paese ad “aspettarlo” per accoglierlo e inserirlo in un mondo totalmente nuovo. Ma proviamo a immaginare cosa volesse dire per una madre e un padre lasciare partire un figlio per viaggi in nave o in treno che potevano durare decine e decine di giorni senza la tecnologia attuale che permetteva di conoscere gli esiti di un viaggio e di un futuro che comunque appariva molto incerto. La mia nonna quando raccontava di questi episodi aveva sempre una ferita dentro al cuore che non si è mai rimarginata.

Dopo poco tempo dalla mia nascita a un certo punto tutto è cambiato perché nonostante quasi 20 anni di lavoro in Svizzera mio padre, con un gesto di coraggio ancora più grande del precedente viaggio all’estero, ha riportato la mia famiglia in Italia (a Forlì) per ricominciare tutto dall’inizio.

Ho sempre chiesto ai mie genitori del perché di questa scelta e loro mi hanno sempre risposto in sintesi “Non volevamo che i nostri figli diventassero svizzeri e che crescessero in quel paese”. Non vorrei che qualcuno si sentisse offeso rispetto a questa affermazione. Sono tornato spesso nel luogo in cui sono nato e lo ricordo come un posto splendido. Loro stessi hanno dei bellissimi ricordi di luoghi e persone, ma in questa frase c’è qualcosa che forse è legato anche agli eventi che stiamo vivendo.

La motivazione economica per i miei genitori era certamente un fattore importante per emigrare, ma non era l’unico fattore di cui tener conto nella loro vita. Soprattutto mia madre non riusciva a vedere in quella società qualcosa che la attirasse fino in fondo come ciò che aveva visto nel suo paese. C’era un modo di vedere la vita, il lavoro, l’educazione dei figli, la religione, gli amici che non corrispondeva all’esperienza che aveva fatto nel suo paese e considerando questo un valore non ha voluto che i suoi figli rinunciassero a questa esperienza. E parliamo comunque di un paese in certi aspetti molto simile all’Italia.

Potrei riassumere questo sentimento in concetti come cultura, società, nostalgia, famiglia, italianità, ma nulla potrebbe veramente spiegare bene quell’esperienza che lei riteneva fondamentale e irrinunciabile per i propri figli.

Insomma sarà banale e forse anche un po’ controcorrente dirlo, ma l’aspetto economico non può essere l’unico elemento attraverso il quale può essere giustificata una migrazione, perché quel tipo di migrazione può essere temporanea per dare un respiro e un sostentamento alle persone che hanno bisogno, ma fare parte di una società, essere integrato è una questione molto più complessa che avere uno stipendio, un piatto da mangiare e un lavoro. Nessuna persona intelligente può pensare che dando queste cose tutti i problemi migratori si risolvano automaticamente. L’esperienza dei mie genitori mi dice proprio questo.

Cosa vuol dire allora integrare ed accogliere? 

Che tipo di società stiamo proponendo alle persone che arrivano nel nostro paese? 

Quasi nessuno si pone queste domande e il livello di scontro è talmente banale e ideologico da parte di tutte le forze politiche rispetto a questa emergenza che non c’è da sperare bene per il nostro futuro.

Leggo molti commentatori politici ed economici che vedono ad esempio nell’immigrazione l’unica soluzione per risolvere la denatalità e il sistema pensionistico. Penso che soltanto un ignorante potrebbe riuscire a trasformare persone (che appunto come ho cercato di spiegare non hanno soltanto un problema economico) in risorse da sfruttare economicamente, parliamo sempre di PERSONE e non di codici fiscali, partite iva o numeri di previdenza sociale….

Come sempre l’unico che ha uno sguardo diverso e pienamente umano sulla situazione è il Papa che con semplici parole ha detto recentemente che rispetto agli immigrati bisogna “accogliere, accompagnare, sistemare, integrare”. “Ogni Paese deve fare questo con la virtù della prudenza. Perché un Paese deve accogliere tanti rifugiati quanti ne può integrare, educare, dare lavoro”.

Non si può accogliere tutti e soprattutto non si può accogliere qualcuno e aiutarlo se non si lavora come ci ha richiamati il Papa. Non si può guardare l’altro come una risorsa economica o un problema da gestire. Negli anni 50 e 60 la Svizzera aveva aperto agli italiani proprio perché svolgessero certi lavori, ma questo non ha generato automaticamente un’integrazione. Molti sanno di come in certi paesi venivano trattati male e considerati gli italiani che tutt’ora vivono con grande nostalgia e dolore la lontananza dal proprio paese.

Mettendo i panni dei miei genitori negli anni 60 e degli immigrati che hanno raggiunto il nostro paese oggi vorrei fare a tutti una domanda: quanto di quello che ha chiesto il Papa è stato fatto nel nostro paese negli ultimi 10 anni? A parte una prima accoglienza, spesso fatta male e sfruttata economicamente dagli stessi italiani, cosa è stato fatto per accompagnare, sistemare ed integrare?

Abbiamo per fortuna delle esperienze personali e di comunità cristiana che possono essere dei fari su questo, ma a livello di politica, di scuola, di amministrazioni locali abbiamo visto (e forse ancora vedremo) il nulla. Potrei fare tanti esempi anche personali, ma evito per non fomentare scontri, polemiche e strumentalizzazioni.

Questo è il motivo per cui il nostro paese si trova in una situazione non semplice, quasi drammatica, nella gestione della migrazioni e manca una posizione di realismo nella maggior parte delle forze politiche.

Don Giussani diceva con un’affermazione semplice che “se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio”: Davanti al dilagare di scontri politici, di episodi di razzismo non basta prendere posizione indossando una maglietta rossa o chiudendo i porti a dei poveretti. Bisogna ripartire da un’educazione di popolo che oggi soltanto il Papa sembra indicare con il suo grande realismo anche davanti ai popoli africani “Tanti governi europei stanno pensando a un piano d’urgenza per investire intelligentemente in quei Paesi per dare lavoro ed educazione”. Forse è il caso che si ricominci a investire su questo anche nella nostra splendida Italia, altrimenti lo scontro sociale potrà soltanto aumentare e le persone che hanno già raggiunto il nostro paese saranno sempre più emarginate ed escluse dalla nostra società anche se con un piatto pieno in mano.

C’è molto da lavorare…

Con amicizia

Domenico Tallarico

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