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Anna, il suo coraggio e quello delle donne ucraine

Da 12 anni a Gambettola, la donna in Italia ha trovato una seconda famiglia, oggi il pensiero fisso al suo Paese

Nella foto alcune manifestanti ai Giardini Savelli, all'evento promosso dai sindacati, martedì 1 marzo (foto di Sandra&Urbano)

“Mi chiamo Anna, ho 65 anni, sono una donna Ucraina e da 23 anni lavoro in Italia accudendo le persone anziane”.

Inizia così il racconto di una signora ucraina, che lavora a Gambettola come badante offrendo un insostituibile aiuto alla famiglia della persona di cui si occupa.

Anna racconta volentieri la sua storia, perché raccontando di sé racconta la storia di tante altre donne Ucraine (nella foto di Sandra&Urbano, un momento della manifestazione di lunedì scorso, 1 marzo, ai Giardini Savelli, promossa dai sindacati per sostenere la pace. All'iniziativa erano presenti molte donne Ucraine che hanno anche testimoniato). 

“La mia casa in Ucraina è a Kovel, una cittadina di 70.000 abitanti a 400 chilometri da Kiev. Prima di arrivare in Italia lavoravo in un bar di Stato a Kovel, poi - durante la Perestrojka - c’è stata una crisi spaventosa, l’attività dove lavoravo ha chiuso così come tante altre. Così a 42 anni mi sono trovata senza lavoro e con  un figlio da accudire e mantenere. Il primo anno lo Stato mi ha riconosciuto una sorta di disoccupazione poi l’anno dopo insieme al mio compagno abbiamo lavorato un pezzo di terra per autosostenerci. Abbiamo piantato patate, grano, cavoli e altri prodotti dell’orto. Per un po' siamo andati avanti così, con il grano facevo la farina e poi il pane e mangiavano solo le verdure del nostro orto, ogni tanto facevamo qualche baratto: patate in cambio di olio. La carne nella nostra tavola non esisteva”.

“Quando è stato il periodo natalizio – prosegue la signora - dove tutti i sentimenti si intensificano e si fanno dei bilanci, mi sono resa conto che non si poteva andare avanti a patate e funghi e funghi e cavoli, Il mio compagno nel frattempo era diventato sempre più aggressivo. Mai fisicamente ma verbalmente era astioso, questo mi causava traumi. Mio figlio all’epoca aveva 18 anni.

La crisi in Ucraina era tangibile e già da un po' di tempo molte donne della mia terra avevano iniziato a venire in Italia per poter mantenere le proprie famiglie e così ho pensato che anche io dovevo fare qualcosa per me e per mio figlio, l’ho pensato con un coraggio non avrei mai creduto di avere. Ho preso 1000 dollari in prestito per pagare il viaggio - alcune amiche hanno fatto una colletta per me - mio figlio, in quanto maggiorenne, è rimasto a casa da solo e io nel mese di marzo del 1999 all’età di 44 anni sono partita con un pullman insieme a tante altre donne nella mia stessa situazione per venire in Italia. Avevo un visto turistico della durata di tre mesi e stavo per iniziare una nuova vita che non sapevo quale fosse”. 

Anna non conosceva l’italiano, non sapeva dove andava ma sapeva cosa lasciava. Arrivata a Roma tramite una agenzia (“gestita da un arabo”, precisa), durante il giorno cercava di imparare qualche parola d’Italiano, i pasti venivano dalla Caritas e l’accoglienza nelle case degli amici del mediatore arabo “che per accoglierci ha voluto 350 dollari”.

“Io avevo paura – ricorda Anna - avevo paura di non trovare lavoro, non conoscevo nessuno, non mi orientavo avevo una sensazione di smarrimento enorme. Dopo tre giorni mi hanno proposto un lavoro in Calabria e io sempre più spaventata ho accettato. Ho pensato: se sono riuscita a venire in Italia non devo avere paura di andare in Calabria. Ma quello è stato il viaggio più brutto della mia vita, mi hanno messa su un pullman da sola, non sapevo dove andavo, non avevo riferimenti e non sapevo se in Calabria ci fosse stato veramente qualcuno ad accogliermi. Sul pullman devo dire che ho scoperto subito l’accoglienza italiana, un signore mi ha dato un panino, un altro un caffè, e mi hanno coccolata dopo molto molto tempo che nessuno mi coccolava più”.

E oggi?

“Sono 23 anni che sono in Italia, so parlare bene la lingua, il dialetto romagnolo ancora non lo conosco, e da 12 sto a Gambettola con la mia bella signora, di nome Renata. Nonostante gli alti e i bassi ho trovato una bella e brava famiglia, la mia seconda famiglia, una mamma e due sorelle”.

“Noi badanti facciamo un lavoro duro, un lavoro fatto di pazienza, dedizione e rinunce, la maggior parte di noi ha rinunciato alla famiglia, ai nipoti, ad un affetto stabile per garantire a noi e ai nostri parenti in Ucraina un futuro migliore”.

 “Questi sono i giorni più difficili dove il cuore e la mente sono sempre rivolti ai connazionali che combattono anche per me, giorni dove vorrei sentire i miei cari, ogni ora. Giorni dove non mi è permessa nemmeno l’angoscia perché il mio lavoro richiede sempre nervi saldi, mitezza e tranquillità”.

Una vita che Anna e tante altre donne come lei hanno messo in gioco per un futuro migliore. Un futuro che ora si vede messo in discussione dalla guerra.

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