Commento al Vangelo
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Il giorno del Signore

Domenica 27 settembre - 26ª domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Il coraggio dell’umiltà e della conversione

Ez 18,25-28; Salmo 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Gesù, nel brano di Vangelo, si rivolge con la nota e breve parabola dei due figli ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo d’Israele. Il profeta Ezechiele parla ai deportati a Babilonia che si lamentavano con Dio per la dura condizione della loro schiavitù. La storia si ripete. Anche noi ci lamentiamo con Dio come se ciò che di triste o di sgradito ci capita dipendesse da Lui e non da noi, dalla nostra mancanza di responsabilità.

L’atteggiamento dei due figli di fronte alla volontà del padre è diverso e con esito opposto. Gli ascoltatori di Gesù rispondono bene alla sua domanda: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Risposero: “Il primo”. Così da soli con le loro stesse parole si autocondannano. La vigna è Israele, popolo di Dio, che in Cristo diventa il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa. I capi del vecchio Israele si vantano di essere stati fedeli, ma la loro obbedienza non è autentica perché è fatta di tanti “no” al Signore, soprattutto nel rifiuto di Cristo e del suo Vangelo, la più grande ed evidente manifestazione della presenza di Dio nella storia dell’uomo. A volte questi atteggiamenti capitano a tanti di noi cristiani che, per la nostra fede un po’ spenta e senza vigore, non possiamo pretendere da Dio chissà che cosa.

Il primo figlio davanti al volere del padre all’inizio si mostra duro e indifferente, ma lo sguardo del padre lo induce a riflettere: è scontento del suo rifiuto, si pente e va al lavoro nella vigna. Ha il coraggio e l’umiltà necessari per la conversione e vive il suo “sì” al padre. È schietto e sincero, dimostra così una maturità umana superiore a quella del fratello. La vera obbedienza è vita, non una pergamena scritta dalla quale ci si libera facilmente: chi ha varcato e varca oggi il Regno di Dio sono i peccatori (i pubblicani e le prostitute) che hanno incontrato l’Amore che è Gesù e si sono sentiti amati. In fondo anche noi siamo così: siamo peccatori, ma Dio ci ama uno per uno secondo i nostri bisogni e ci mette in condizione di dirgli di “sì”, anche se, per la nostra fragilità, non è un sì definitivo, ma lo diventa nella misura in cui sappiamo riconoscere la nostra povertà e la sua infinita misericordia.

Ezechiele (prima Lettura) è un sacerdote ebreo deportato a Babilonia e Dio lo chiamò essere profeta per il popolo in esilio. Gli ebrei schiavi si lamentano per la loro condizione e dicono che Dio non è stato giusto con loro, ma Ezechiele li sveglia sulla verità della loro situazione. Siete stati ostinati nel male, non avete ascoltato la voce dei profeti (Geremia), siete stati ribelli a Dio fino in fondo, senza un barlume di pentimento e adesso cosa pretendete? Ezechiele afferma con forza il senso della responsabilità individuale e sociale. Ognuno (persona o gruppo) è responsabile delle proprie scelte buone o cattive e deve accettarne le conseguenze. Non esiste una vita programmata in anticipo. Dio ci crea liberi, per cui ogni uomo o popolo sarà giudicato sulle proprie azioni. In questo impegno di responsabilità, dati i nostri limiti, Dio è sempre pronto a perdonare e a salvare. Gli basta il nostro “sì” e il nostro futuro è sempre aperto alla fiducia e alla speranza. Per questo anche noi liberiamoci da certe idee sbagliate che ci portano, a volte, a scaricare le colpe sugli altri o addirittura su Dio invece che su noi stessi.

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Domenica 27 settembre - 26ª domenica del Tempo Ordinario - Anno A
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