Editoriale
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Caso Lambert

La vita è indisponibile

Vincent Lambert, in stato vegetativo persistente, viene lasciato morire. Mentre mi accingo a queste note, il 43enne francese ancora lotta per non abbandonare questo mondo. Per lui hanno deciso altri.

La vita è indisponibile

Vincent Lambert, in stato vegetativo persistente, viene lasciato morire. Mentre mi accingo a queste note, il 43enne francese ancora lotta per non abbandonare questo mondo. Per lui hanno deciso altri.

In primis la moglie, suo tutore, contro il parere dei genitori che si sono battuti, assieme a tanti, per fare in modo che non venissero sospese alimentazione e idratazione. Per lui, Vincent, che un terribile incidente nel 2008 ha reso tetraplegico e non più in grado di rispondere agli stimoli esterni.

Eppure Lambert si sveglia, spalanca gli occhi, non è attaccato a nessuna macchina. Respira in maniera autonoma. Esattamente come viveva Eluana Englaro per la quale si fece di tutto per non farla morire di abbandono, dopo che per lei avevano deciso il padre e i giudici che stavano dalla sua parte.

C’è qualcosa che non torna in tutte queste vicende. Chi può decidere se una persona deve essere alimentata oppure no? Chi può scegliere se un altro è degno di vivere o di morire? Chi ha il coraggio di decretare la fine per stenti, anche se con sedazione profonda, di una persona cara? Chi ha il potere di vita e di morte? A chi spetta? E fino a che punto? Dove si trova il discrimine?

La vita e la morte dovrebbero essere dati oggettivi. Lo ha scritto a chiare lettere anche Marina Corradi in prima pagina su Avvenire di martedì scorso. “Ciò che accade a Reims, a rifletterci, fa un’impressione profonda – ha scritto l’editorialista -. Vincent Lambert non è in stato di morte cerebrale. E il suo cuore batte spontaneamente, il suo respiro non ha bisogno di macchine. Non è un paziente terminale. Non stava, fino a pochi giorni fa, morendo. È semplicemente un disabile molto grave, in stato di veglia non responsiva. Nella sola Francia ci sono 1.700 malati in condizioni simili”.

È sufficiente il mancato rapporto con il mondo esterno per decidere di fare morire una persona? A questo siamo giunti? Quanti disabili gravi vivono ogni giorno e sono accuditi e seguiti con affetto e amore nelle case, nelle strutture, nelle famiglie? Chi può decidere se una vita è degna e un’altra no? Può, a questo punto, decidere da solo colui al quale una persona viene affidata? Oppure ci può essere un dato oggettivo ineludibile, invalicabile, non oltrepassabile?

Oggi, come ai tempi di Eluana Englaro e di altri casi simili più recenti, siamo ancora qui a porci domande che solo qualche decennio fa neppure ci saremmo immaginate. Questo è il progresso nel quale siamo immersi? E queste le conquiste della medicina? I quesiti rimangono aperti, nel pieno del dramma di ogni vicenda umana che, comunque e in ogni caso, mai ci appartiene e rimane indisponibile. La nostra e quella altrui.

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