Editoriale
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Italia fuori da Russia 2018

Rifondare la cultura del calcio

Attorno alla Nazionale ci si ritrova in tanti, almeno una volta ogni quattro anni, per sentirsi ancora uniti. Per ritrovare un po' di quell'orgoglio italico troppo spesso dimenticato e deriso. Si tratta di un anestetico collettivo, quello innescato dalla passione per la divisa azzurra.

Rifondare la cultura del calcio

Dybala, Dzeco, Higuain, Icardi, Peresic, Mertens. Avessimo avuto anche solo un paio di questi calciatori, ora non starei qui a commentare la clamorosa eliminazione della nostra Nazionale di calcio dai mondiali 2018 che si svolgeranno in Russia.
Gli azzurri, lunedì sera, ce l'hanno messa tutta. Il cuore e la passione c'erano. Il pubblico li ha sostenuti con grandissimo affetto dall'inizio alla fine. Per 98 minuti (3 + 5 di recupero) i nostri calciatori hanno sbattuto contro il muro svedese, innalzato a difesa del gol rimediato poche sere prima a casa loro.
Per noi non c'è stato nulla da fare. La delusione ha attraversato tutto il Paese, inutile negarlo. Sì, perché attorno alla Nazionale ci si ritrova in tanti, almeno una volta ogni quattro anni, per sentirsi ancora uniti. Per ritrovare un po' di quell'orgoglio italico troppo spesso dimenticato e deriso. Si tratta di un anestetico collettivo, quello innescato dalla passione per la divisa azzurra.
Allora si può ben comprendere la sconfitta, il senso di smarrimento che non si viveva dal 1958 e che si è materializzato in una serata destinata a entrare nell'elenco delle disfatte di calcio, di quelle davvero cocenti.
“C'è di peggio nella vita”, ha scritto Gigi Garanzini sulla Stampa di martedì. Lo ribadisco pure io. Stiamo parlando pur sempre di pallone. Un pallone che fa girare milioni di euro e attorno a sé ha un movimento da rimettere in marcia. Sì, perché per tornare all'elenco iniziale, penso stia proprio lì l'autentica questione che non si vuole affrontare.
Avessimo avuto un Icardi in area di rigore, magari una rete ci poteva pure scappare. Oppure un ariete come il bosniaco centravanti della Roma che avrebbe potuto lottare con i colossi in maglia gialla. Invece nulla. Abbiamo i nostri e ce li teniamo. E, intendiamoci, non che sia solo colpa loro. Ma se andiamo in giro per il mondo a comprare stranieri che bloccano i calciatori di casa nostra, di cosa poi possiamo lamentarci?
Italo Cucci, nei primi commenti messi in pagina, ha scritto per l'ennesima volta che bisogna tornare a 16 o a 18 squadre in serie A. Ha ragioni da vendere. Abbiamo una massima serie non più competitiva, di livello deludente. Gli stadi sono spesso vuoti. I vivai sono abbandonati dai grandi club impegnati solo a reclutare talenti in giro per il mondo.
Sul calcio, come nella vita, occorre investire. Inutile poi piangere su ciò che non si sostiene.
Infine un'annotazione piena di amarezza. Martedì mattina presto, su Radiouno, un editorialista della Gazzetta dello sport ha così commentato: “Occorre rifondare la cultura del calcio. Un pubblico che fischia un inno nazionale non è degno di un mondiale”. Come dargli torto?

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