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Covid-19. La risposta resti umana

Oltre a ridisegnare le nostre abitudini di vita e le condizioni di lavoro, la pandemia avrà effetti sulle dinamiche sociali, accentuando o creando inedite divisioni e disuguaglianze

Covid-19. La risposta resti umana

Oltre a ridisegnare le nostre abitudini di vita e le condizioni di lavoro, la pandemia avrà effetti sulle dinamiche sociali, accentuando o creando inedite divisioni e disuguaglianze.

Secondo le definizioni di alcuni economisti americani, ad esempio, i nuovi privilegiati sono i “remoti”, ossia coloro che possono lavorare e fare tutto restando chiusi nelle proprie abitazioni, mentre al gradino inferiore si collocano gli “essenziali”, costretti al contatto fisico con utenti e clienti e dunque più a rischio. In fondo alla scala, i “disoccupati assistiti”, che resteranno a casa non certo per loro volontà.

La diffusione della tecnologia è tale, azzardano altri, che si assisterà addirittura a un certo spopolamento delle grandi metropoli a favore delle campagne e delle città più piccole. Difficile però che questo accada in Italia, dove il telelavoro è ostacolato da ritardi tecnologici e impreparazione.

Prima dell’emergenza coronavirus gli italiani in smart working erano appena il 2 per cento dei dipendenti, contro il 20 per cento del Regno Unito, il 16,6 per cento della Francia e l’8,6 per cento della Germania.

Altri grandi interrogativi riguardano il tracciamento digitale dei contatti, una delle misure considerate necessarie per individuare nuovi possibili focolai di contagio e prevenirne la diffusione. In Italia dovrebbe partire alla fine di maggio grazie all’app “Immuni”, al momento in fase di sperimentazione. Dove finiranno i nostri dati personali? È garantito il diritto alla riservatezza? Per quanto tempo durerà questo sistema di monitoraggio? E non meno importante: visto che installarla sullo smartphone sarà volontario, gli italiani la installeranno?

L’agenzia Sir ha rivolto queste domande a padre Paolo Benanti, docente di etica delle tecnologie alla Pontificia Università Gregoriana. “Se ci concentriamo solo sull’app – ha risposto il francescano – stiamo dicendo che è importante solo la vita di chi usa lo smartphone. Questo può essere uno strumento in più ma la risposta deve essere sociale, perché ognuno è una vita che ha dignità e diritti. Su questo non possiamo delegare alla tecnologia, che può essere un supporto, restando però sempre umani”.

D’altronde la tecnologia da sola non basta. Anche l’app, senza una strategia più ampia fatta di tamponi e gestione dei servizi sanitari, può fare molto. La tecnologia – conclude Benanti – “non è un luogo a cui affidare la nostra sicurezza ma uno strumento per potenziare quelle che sono le normali procedure di contenimento della diffusione del virus”.

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