Dietro la notizia

Quell’esplosione a Pomezia ce lo ha ricordato con la sua forza bruta. La libertà di stampa è qualcosa di fragile. La si può intimidire, silenziare, fare a pezzi. È accaduto ancora, questa volta contro un giornalista di inchiesta, Sigfrido Ranucci, la cui auto è stata distrutta dall’esplosivo. Il presidente Mattarella ha chiesto una reazione ferma e coraggiosa. Ma la politica, da sola, non basta. Perché la libertà di stampa non è una questione che riguarda solo i giornalisti: riguarda tutti noi, la nostra capacità di restare cittadini liberi.

Dietro ogni notizia trovata e verificata che oggi possiamo leggere in tempo reale sul nostro smartphone da tutto il mondo c’è il lavoro concreto, e spesso invisibile, di donne e uomini che cercano la verità tra burocrazie, minacce, confini chiusi, regimi ostili.

Ecco perché un ordigno non colpisce solo un giornalista: colpisce un principio. La libertà di stampa si può soffocare in molti modi: con una bomba, con il carcere, con il divieto di attraversare una frontiera, come accade ai cronisti tenuti lontani da Gaza o ai reporter che cercano di raccontare la guerra in Ucraina. Si può soffocare anche con la disattenzione, con il frastuono incessante dei social o delle fake news.

A spegnersi non è solo una voce, ma la possibilità stessa di comprendere il mondo. Papa Francesco,

al Giubileo dei giornalisti, lo aveva ricordato con parole che oggi risuonano come monito: «La libertà dei giornalisti fa crescere la libertà di tutti noi. La loro libertà è libertà per ognuno di noi».

Secondo la Federazione internazionale dei giornalisti, nel 2024 sono stati oltre 120 i cronisti che hanno perso la vita nel mondo mentre svolgevano il loro lavoro.

Alcuni sono morti sotto le bombe, altri in silenzio, cancellati da un regime o da una prigione. Altri ancora – come Stefania Battistini, ricercata dalla Russia per i suoi reportage dall’Ucraina – continuano a fare il proprio mestiere pur sapendo di essere diventati bersagli.

L’attacco a Ranucci ci riporta alla realtà: il giornalismo non è un algoritmo né un flusso automatico di notizie. È ancora fatto di teste, cuori e mani. È la fatica di chi ascolta, verifica, disturba, mette in discussione le versioni comode, anche dentro la Chiesa. In mezzo alle polarizzazioni e alla propaganda, la libertà di informazione è uno dei pochi strumenti che ci restano per formarci un giudizio critico e per difenderci dalle semplificazioni.

Là dove i giornalisti vengono allontanati, che sia a Gaza, in Ucraina o in qualunque altra frontiera del mondo, si fa più buio per tutti.