Le Kessler e gli occhi di Andrea

"Ripenso alle gemelle e alla mamma di Andrea e intravedo che ciò che davvero tiene una vita è il dono di sé. E spero, per me, di imparare almeno un po’ di quello sguardo" scrive il lettore Francesco Turci

Foto "Sorrisi e canzoni" (1965)
Foto "Sorrisi e canzoni" (1965)

In merito alla morte delle due famose artiste tedesche (cfr il pezzo al link sotto), è intervenuto il lettore Francesco Turci. Di seguito pubblichiamo il suo contributo

Caro direttore,

mi ha colpito la notizia di stasera (ieri per chi legge, ndr) della morte delle gemelle Kessler, con tutta probabilità per via di un suicidio assistito. Una scelta estrema del genere mi muove verso un tentativo ahimè impossibile di capire fino in fondo il dolore ed il vuoto che porta, non solo una persona, ma due (sorelle) a fare una scelta in modo razionale, studiato e addirittura condiviso. Mi viene in mente quando Battisti cantava “anche per te vorrei morire, o Dio morir non so”. In ultimo c’è solo lo struggimento per il dolore dell’altro e l’impotenza di non comprenderlo a fondo. Per questo non riesco a giudicare queste due donne: che esperienza vivevano per fare un gesto così? Due persone che certamente hanno vissuto la vita godendone i frutti: il successo, la notorietà, gli agi che ne sono derivati. Eppure di fronte al decadimento ed al buio, al dolore ed al non-senso, nulla tiene. Diventa ragionevole, quindi, finirla.

“Hanno scelto come morire”. I commenti sui social

Molti la sistemano come “un gesto di umanità e dignità”: leggendo sui social i
commenti più comuni sottolineano il coraggio di queste due donne. Hanno scelto come morire!

Eppure al netto di tutto, della dignità, del coraggio e della libera scelta sulla propria vita, a me tutto questo non basta, non tiene. Non prima di tutto per ragioni di posizione etica (gesto giusto o sbagliato) ma perché mi stride. Possibile che la vita (la mia vita, la loro vita) non valga piu nulla ad un certo punto? Cosa tiene?

“Donarsi cambia la vita”. La storia di Andrea

Due settimane fa ho accompagnato un ragazzo gravemente disabile di nome Andrea, che seguo nell’associazione Il Disegno, all’ospedale di Forlì. Doveva fare una visita agli occhi per vedere se poteva accedere ad una operazione alla cataratta. Da qualche mese, infatti, è praticamente cieco per l’aggravarsi rapido di tale patologia. Avendo due genitori anziani e malati mi sono offerto di portarlo. Quando entro in casa di Andrea rimango sempre scosso dalla loro semplicità e dalla fatica che sono chiamati a fare da ormai 50 anni nel seguire il loro adorato Andrea, nato cerebroleso. Una vita di sacrifici, anche economici, e, nell’ultimo periodo, anche di sofferenze fisiche: sua mamma ha l’artrite reumatoide che non le permette di fare quasi più nulla e tutto quello che riesce a fare è per suo figlio. Guardandoli è una situazione che per il mondo è ciò di più lontano da quello che uno può desiderare per se. Per il mondo è l’inferno. Alla visita, gli esami hanno dato esito positivo per l’operazione: la retina è sana e si può procedere.

Al ritorno, quando l’ho riportato in casa, sua mamma è scoppiata a piangere di gioia dicendo una frase che, nei giorni successivi, non mi usciva dalla testa “che bello! Allora può tornare come prima, che bello!”. Il “come prima” è un uomo di 50 anni cerebroleso difficile da gestire, quasi incapace di deambulare ed alcune volte anche violento. E lei piangeva piena di gioia. Lei non voleva altro che suo figlio come lo conosceva: per lei era una gioia questo. Perché per lei la vita va spesa donandosi per il suo Andrea, soffrendo e facendo fatica ma donandosi per Andrea. Intuisco da Andrea e dalla sua famiglia che il vero problema non è fare fatica o soffrire (che mi terrorizza), ma è donarsi che cambia la vita e le dà senso. E questo mi fa ben sperare perché è possibile donarsi anche se incapaci, anche se “inutili” per il mondo.

Ripenso alle Kessler e penso alla mamma di Andrea e intravedo che ciò che davvero “tiene” una vita è il dono di sé. E spero, per me, di imparare almeno un po’ di quello sguardo.

Francesco Turci