Diocesi
Il vescovo Douglas ai politici: “Sempre in cammino e sperare come Abramo”
Dal presule agli operatori impegnati in campo sociale e politico in ritiro al Monte l'invito a "non adagiarsi sulla poltrona"
“Guarda in cielo, conta le stelle…”. È stato il titolo della riflessione, incentrata sulla figura di Abramo, che il vescovo Douglas Regattieri ha proposto questa mattina agli operatori impegnati in campo sociale e politico in ritiro, per l’inizio della quaresima, al monastero di Santa Maria del Monte, a Cesena. Accanto a lui Marco Castagnoli, direttore dell’Ufficio diocesano per i problemi sociali e il lavoro.
Abramo, “saldo nella speranza contro ogni speranza”
“Con Abramo – ha premesso il presule – comincia la storia di Israele. È Dio che si fa storia, una storia d’amore fra Dio e il suo popolo. Dio sceglie questa realtà piccola e debole con una promessa: “Farò di te un grande popolo”. Gli anni passano – ha ricordato il vescovo – ma Abramo non vede questa grandezza perché non ha discendenza, ma il Signore ripete la promessa”. Con la nascita miracolosa di Isacco, “si realizza il sogno di una discendenza numerosa”. Poi l’imprevisto: “il Signore mette alla prova Abramo e gli chiede la vita del figlio”. Abramo, ha commentato il vescovo citando Paolo (Romani 4), è colui che è “saldo nella speranza contro ogni speranza”. Tre, nello specifico, i passaggi del “dramma di Abramo” ripercorsi dal presule, citando ancora Paolo (Ebrei 11): “Per fede partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come straniero. Per fede, messo alla prova, offrì Isacco, il figlio della promessa. Abramo è stato quasi scarnificato da Dio, eppure ha creduto, per questo è padre della fede“.
“Sempre in cammino”
Dalla vicenda di Abramo, monsignor Regattieri ha lasciato alcune indicazioni a chi è impegnato in politica e nel sociale: “Abramo partì, si mise in cammino. Spesso, trovata la poltrona, ci adagiamo. Questo succede in politica, ma anche nella Chiesa. Invece siamo uomini e donne in cammino, verso un oltre. Quella di stare seduti, una volta trovato un nido sicuro, è una tentazione subdola“.
“Stranieri in patria”
Poi il riferimento al soggiorno in una terra che non è nostra: “I cristiani – ha ricordato il vescovo – sono pellegrini su questa terra. Siamo stranieri perché la terra non ci appartiene. Siamo solo custodi di passaggio, perché la vera patria è nei cieli. L’uomo vive sulla terra come in esilio”. Da questa consapevolezza, “chi ha la responsabilità di costruire la città terrena, deve evitare il rischio di vivere solo di idee. Bisogna costruire il bene comune. Il fatto di essere stranieri su questa terra deve incidere nel costruire la civiltà dell’amore, con i piedi piantatati in terra”. Mentre “l’utopia è sganciata dalla realtà”, la speranza cristiana “tocca con mano un anticipo di vita eterna, che c’è e di cui la vita terrena è caparra”.
“Dio dà e toglie”
Dall’esperienza di Abramo, un cenno infine al “Dio contradditorio, che dà il figlio e lo toglie”, con la consapevolezza che “condurrà comunque al bene”. Secondo il presule, “viviamo un momento storico complesso, contradditorio, per cui è difficile discernere il giusto e il bene, fare la scelta migliore. Il discernimento può partire solo dalla Parola di Dio”, con la consapevolezza che, con modi e tempi per noi imperscrutabili, il Signore vuole solo il bene per noi.

“Sereni e disinteressati accuditori”
Da monsignor Regattieri infine, a una settimana dal passaggio di consegne al nuovo vescovo Giuseppe Antonio Caiazzo, la consegna delle parole del teologo Giuliano Zanchi, lette al termine dell’incontro.
“Lo stato d’animo che occupa la nostra coscienza di credenti nati nella Chiesa – così il brano citato – rischia di assomigliare allo sgomento dei dodici di fronte al crescente isolamento in cui vengono trascinati assieme a Gesù. Avevano inteso l’ingaggio nella causa del Regno con qualche eccesso di euforia e con qualche arbitrio immaginifico. Qualcuno di loro premeva già per l’assegnazione della poltrona più adeguata e assumeva già atteggiamenti da responsabile del partito. La devozione del discepolo immagina sempre la fedeltà al maestro come un investimento verso concreti sogni di gloria. Quanta deve essere stata quindi l’incredulità dei dodici nel vedere il deserto farsi attorno a Gesù, scaricato dalle masse sempre in cerca di magie, tenuto a distanza dalla famiglia che lo crede matto, messo all’indice dal rancore dell’istituzione religiosa, progressivamente abbandonato da tutti, eppure sfrontatamente libero di chiedere agli ultimi rimasti se vogliono andarsene anche loro”.
“Ma – si chiede il teologo nel brano citato dal vescovo – non si doveva radunare tutto Israele? Non erano stati chiamati in dodici proprio per quello? Non si doveva tornare alla gloria dei tempi di Davide? Com’è che siamo rimasti quattro gatti scansati da tutti? Come sanno tutti i buoni frequentatori della bibbia, è a questo punto che Gesù inventa le parabole del Regno variandone le versioni sul tema ricorrente della sua piccolezza, della sua invisibilità, della sua impercettibilità. Ma soprattutto del suo coincidere con quella ostinazione di Dio di cui si può solo essere i sereni e disinteressati accuditori. Non si tratta di un invito al disimpegno. Ma a vigilare sulle aspettative che bisogna avere per non sprofondare nell’ansia delle prestazioni e nel complesso di inadeguatezza. Per poi perdere la fede. Quando i segni del Regno si rendono visibili come grandezze sociologiche da conteggiare allo zero virgola, non ci si deve convincere che esso sia scomparso dalla faccia della terra, significa solo che bisogna di nuovo pazientemente tornare sulle tracce di quelle cavità e di quegli interstizi dove le sue radici sono andate a infilarsi. E da bravi e umili contadini, innaffiare dove c’è da innaffiare, concimare dove c’è da concimare, fare ombra dove c’è troppo sole. E poi lasciar crescere. Senza perdere il sonno“.