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è ancora emergenza sanitaria

Coronavirus, la testimonianza di un medico in trincea

Scrive Alessandro Circelli, da un anno in prima linea contro il Covid nel reparto di Anestesia e Rianimazione dell'ospedale Bufalini. "Poi riguardi quegli occhi che ti chiedono aiuto e ti torna in mente che non hai fatto questo lavoro per curare i "giusti", ma per provare a combattere, in una lotta impari, la malattia e la morte"

Foto archivio agensir.it

Non c'è stato il tempo per un'intervista articolata, che gli avevo chiesto nei giorni scorsi. Allora, nei pochi momenti di sosta, il dottor Alessandro Circelli, in forze al reparto di Anestesia e Rianimazione dell'ospedale "Bufalini" mi ha inviato le riflessioni che seguono. È la cronaca di una mattina, quella di ieri, in primissima linea, con il ritmo tambureggiante di una battaglia ancora tutta da vincere. È tutto vero, avverte il medico. 

Carissimo, ti invio un po' di riflessioni su una mattina routinaria. Tutto vero...

Iniziamo il briefing mattutino, in collegamento Meet tra le quattro terapie intensive: c'è sempre qualche problema tecnico, ma questa mattina si risolve rapidamente e riusciamo a partire. C'è tensione e stanchezza dei medici notturni che smontano. Prendiamo le consegne rapidamente perché è stata una notte impegnativa. Le attività tutto sommato proseguono. Gli incidenti stradali continuano (qualcuno non rispetta il coprifuoco....), gli ictus ci sono, i problemi cardiologici pure.

Tempo di un caffè e iniziamo l'attività. C'è da fare una tracheotomia al paziente messo in circolazione extracorporea: è giovane, siamo a supporto massimale e non possiamo mollare. Solo che nel frattempo un paziente è peggiorato nel reparto di medicina Covid. Lo spostiamo nell'ultimo posto della Terapia intensiva. Proveremo a fare un po' di ossigeno nel casco e sperare che recuperi: solo che nel trasferimento peggiora ulteriormente. È necessario intubarlo al volo. Anche l'intubazione non porta a un livello di ossigeno sufficiente. Allora proviamo a fare l'estremo tentativo di metterlo in posizione prona. Le linee guida dicono di tenerlo così per 16 ore. Arriviamo a domani e speriamo di vedere quel miglioramento.

Contemporaneamente, nel letto di fronte c'è un sospetto Covid, isolato, che non si rivela tale. Era un problema cardiaco: proviamo a farlo respirare da solo, così da poterlo trasferire in cardiologia: regge per qualche minuto, poi è necessario rimettere il tubo. Niente, non è un posto liberabile. Purtroppo si libera il letto nella camera accanto: un anziano che negli ultimi giorni si era stabilizzato, ci avevamo quasi sperato; ha avuto un peggioramento questa notte, non è più possibile fare nulla. Chiamiamo i familiari, sono due colleghi, avevano capito la situazione fin da subito, ma trovarsi difronte alla morte del proprio padre è un'altra cosa. Adesso tocca alle inservienti delle pulizie: anche il loro lavoro è fondamentale, poter aiutare una persona passa anche dalle loro mani che rapidamente devono sanificare la stanza.

Ci sarebbe ancora un'altra possibilità per avere un posto letto: un ragazzo che ha avuto un incidente nella notte, intubato per la gravità del trauma. Il tampone rapido positivo, il molecolare, che è quello che conta, è negativo: dovremmo stare tranquilli nello spostarlo in area pulita. Ma la Tac è dubbia, potrebbe essere nella fase in cui ancora non si vede la positività... Cosa facciamo, rischiamo? Decidiamo di prenderci 48 ore e rifare un altro tampone. E così il posto non si libera. Avanza qualche minuto: ci organizziamo per fare la tracheotomia. Procedura rapida e pulita in poco meno di un quarto d'ora, i tempi vanno ottimizzati all'estremo; le infermiere di posto letto sono stupite della rapidità, ma entusiaste nel veder lavorare così.

Inizio a fare il giro nella sub-intensiva, per vedere se qualcuno va meglio. Ci sono due signore trasferibili, una l'abbiamo messa in stanza con il marito: le dispiace abbandonarlo, ma lui non va ancora benissimo, lei invece sì e quindi viene spostata in degenza ordinaria. Si libera così un posto in sub-intensiva. L'altra signora è un po' più anziana. Le troviamo un posto libero in geriatria. Andiamo a -2, ma in realtà saremo in pari, ci sono altri pazienti: sono degli scambi per chi invece sta peggiorando in reparto e avrà bisogno di un casco e di un reparto di sub-intensiva.

Appena sistemati, giusto il tempo di fare la valutazione nel reparto di geriatria per pazienti che stanno andando male, ma su cui purtroppo, per l'età molto avanzata, non ci sono margini per intervenire ulteriormente. Il Pronto soccorso ancora non si è fatto sentire, l'altro reparto di Medicina neanche: ma è ancora presto, si riuscirà a capire un po' l'andamento tra le 3 e le 4 del pomeriggio: proprio quando escono i dati dei contagi. Sono numeri, ma sai già che tra pochi giorni dentro quei numeri ci saranno delle persone con quella solita maledetta TAC, quella fatica a respirare e gli occhi sgranati.

I tuoi occhi sono invece incattiviti, perché leggi che il contagio è avvenuto a un pranzo, a lavoro mentre erano in pausa a fumare insieme, mentre cantavano... Poi riguardi quegli occhi che ti chiedono aiuto e ti torna in mente che non hai fatto questo lavoro per curare i "giusti", ma per provare a combattere, in una lotta impari, la malattia e la morte.  Dentro questa inesorabile umana limitatezza, di chi sta male, di chi cura (o semplicemente, si prende cura) e di chi sta a casa e spera, si spalanca lo straordinario desiderio di infinito che l'uomo ha anche dentro questa strana e incomprensibile battaglia contro il microscopico nemico.

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