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Immigrazione

Il muro di morte di Melilla, dove si nega la costruzione di un futuro comune

L'ultima strage è avvenuta venerdì sera a Melilla. Trentasette i morti, centinaia di feriti, soprattutto tra i migranti, ma anche tra gli agenti

Il muro di morte di Melilla, dove si nega la costruzione di un futuro comune

Ormai quella di venerdì sera a Melilla si delinea come una vera e propria strage di migranti tra l’Europa e l’Africa, la Spagna e il Marocco. Trentasette i morti, centinaia di feriti, soprattutto tra i migranti, ma anche tra gli agenti. La strage, solo l’ultima tra quelle che in più di vent’anni hanno generato oltre 4000 morti tra i migranti siriani, palestinesi e oggi soprattutto subsahariani, è avvenuta in Marocco, che insieme alla Spagna, a metà degli anni ’90, ha innalzato i primi due – a Ceuta (nel 1993) e a Melilla (nel 1996) – dei sedici muri che oggi sono alle frontiere europee.

Un muro alto sei metri di recinzione, finanziato dall’Europa, come altri proposti nel piano europeo 2021-2027; come finanziati dall’Europa sono i respingimenti nel Mediterraneo dei migranti che partono dalla Libia o dall’Egitto o dalla Turchia; come finanziati dall’Europa sono i campi dei richiedenti asilo della Turchia, del Marocco e della Libia.

Alcuni, forse 1000 migranti, sono riusciti grazie al sacrificio dei loro compagni di viaggio, a raggiungere il territorio spagnolo.

Questa strage, queste morti, allontanano il processo di un’Europa solidale che sembrava camminare, grazie anche alla tragedia della guerra Ucraina e dei milioni di rifugiati accolti in Europa.

“I muri sono immorali” gridò con tutte le sue forze, David Sassoli. I muri non servono a fermare migranti e rifugiati (quest’ultimi arrivati ormai a 100 milioni), come dimostrano i numeri sempre in crescita.

Più che i muri servono strade, corridoi che in sicurezza accompagnino il cammino di chi fugge dalla guerra, dai disastri ambientali, dalla tratta, dalla miseria.

Più che creare campi serve aprire le tante case chiuse, in paesi che si spopolano, tra le famiglie senza figli di un’Europa sempre più stanca e sempre più vecchia.

I migranti e i rifugiati sono il dono di Dio per la nostra storia, le nostre città, che sono chiamate a ripensare i propri spazi, i luoghi di vita, di lavoro, di cultura, di fede facendo propria ‘la cultura dell’incontro’ che Papa Francesco non si stanca di richiamare, rifiutando la retorica dello scontro, del respingimento, dell’abbandono, dell’esclusione che alimenta troppe politiche migratorie.

Abbattere i muri, i 16 dell’Europa e i 70 del mondo, sarebbe un atto di civiltà, di quella civiltà dell’amore di cui hanno parlato san Paolo VI e san Giovanni Paolo II, di quella fraternità che respiriamo nelle pagine della Caritas in veritate di papa Benedetto XVI e della Fratelli tutti di papa Francesco: un atto di democrazia.

Fonte: Sir
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