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Via Crucis al Colosseo: “echi di pace” in un mondo in preda alla “terza guerra mondiale a pezzi”

Papa Francesco, a causa del freddo intenso di questi giorni, ha seguito la Via Crucis al Colosseo dalla sua residenza a Santa Marta. Al centro delle meditazioni che hanno scandito il rito al Colosseo, il dramma del conflitto in Ucraina

Foto Vatican Media/SIR

“Echi di pace” in un mondo in preda alla “terza guerra mondiale a pezzi”. Sono le 14 stazioni della Via Crucis, che papa Francesco quest’anno, a causa del freddo intenso di questi giorni,  ha seguito dalla sua residenza a Casa Santa Marta. I testi proposti quest’anno per le stazioni della Via Crucis sono testimonianze ascoltate dal Santo Padre nel corso dei sui viaggi apostolici e in altre occasioni. La raccolta è stata curata da alcuni Dicasteri della Curia Romana. Al centro delle meditazioni che hanno scandito il rito al Colosseo, a cui hanno partecipato circa 20mila persone, il dramma del conflitto in Ucraina, che ha superato l’anno di guerra, e dei tanti altri Paesi dove ancora non cessa il fragore delle armi, ma anche la tragedia dei migranti. Alla fine, la preghiera dei “14 grazie”, letta dal cardinale Angelo De Donatis, vicario generale del Papa per la diocesi di Roma.

Nella decima stazione della Via Crucis, si incrociano i racconti di due giovani: uno ucraino e l’altro russo.

“L’anno scorso – dice il primo – papà e mamma hanno preso me e mio fratello più piccolo per portarci in Italia, dove nostra nonna lavora da più di vent’anni. Siamo partiti da Mariupol durante la notte. Alla frontiera i soldati hanno bloccato mio padre e gli hanno detto che doveva rimanere in Ucraina a combattere. Noi abbiamo continuato in pullman per altri due giorni. Arrivati in Italia io ero triste. Mi sono sentito spogliato di tutto: completamente nudo. Non conoscevo la lingua e non avevo nessun amico. La nonna si sforzava per farmi sentire fortunato, ma io non facevo altro che dire di voler tornare a casa. Alla fine la mia famiglia ha deciso di rientrare in Ucraina. Qui la situazione continua a essere difficile, c’è guerra da tutte le parti, la città è distrutta. Ma nel cuore mi è rimasta quella certezza di cui mi parlava la nonna quando piangevo: ‘Vedrai passerà tutto. E con l’aiuto del buon Dio tornerà la pace’”.

“Io, invece, sono un ragazzo russo”, prosegue il secondo: “mentre lo dico sento quasi un senso di colpa, ma al tempo stesso non capisco perché e mi sento male due volte. Spogliato della felicità e di sogni per il futuro. Sono due anni che vedo piangere la nonna e la mamma. Una lettera ci ha comunicato che mio fratello più grande è morto, me lo ricordo ancora nel giorno del suo 18esimo compleanno, sorridente e brillante come il sole, e tutto questo solo qualche settimana prima di partire per un lungo viaggio. Tutti ci dicevano che dovevamo essere orgogliosi, ma a casa c’era solo tanta sofferenza e tristezza. La stessa cosa è successa anche per papà e nonno, anche loro sono partiti e non sappiamo nulla”.

Nella seconda stazione, a parlare è un migrante dell’Africa occidentale: “Dopo tredici giorni di viaggio arrivammo nel deserto e l’attraversammo per otto giorni, imbattendoci in auto bruciate, taniche d’acqua vuote, cadaveri di persone, fino a giungere in Libia. Chi doveva ancora pagare i trafficanti per la traversata fu rinchiuso e torturato fino a quando non pagò. Alcuni persero la vita, altri la testa. Mi promisero di mettermi su una nave per l’Europa, ma i viaggi furono cancellati e non riavemmo i soldi. Lì c’era la guerra e arrivammo a non far più caso alla violenza e alle pallottole vaganti. Trovai lavoro come stuccatore per pagare un’altra traversata. Alla fine salii con più di cento persone su un gommone. Navigammo ore prima che una nave italiana ci salvasse. Ero pieno di gioia, ci inginocchiamo a ringraziare Dio. Poi scoprimmo che la nave stava tornando in Libia. Lì fummo rinchiusi in un centro detentivo, il peggior posto del mondo. Dieci mesi dopo ero di nuovo su una barca. La prima notte ci furono onde alte, quattro caddero in mare, riuscimmo a salvarne due. Mi addormentai sperando di morire. Svegliatomi, vidi accanto a me persone che sorridevano. Dei pescatori tunisini chiamarono i soccorsi, la nave attraccò e delle ong ci diedero cibo, vestiti e riparo. Lavorai per pagare un’altra traversata. Era la sesta volta. Dopo tre giorni in mare giunsi a Malta. Rimasi in un centro per sei mesi e lì persi la testa. Ogni sera chiedevo a Dio perché: perché uomini come noi devono ritenerci nemici? Tante persone che fuggono dalla guerra portano croci simili alla mia”.

Joseph e Johnson sono due adolescenti dell’Africa settentrionale, protagonisti della settima stazione. “Sono arrivato nel campo per sfollati con i miei genitori nel 2015 e ci vivo da più di otto anni”, racconta Joseph: “Se ci fosse stata la pace, sarei rimasto a casa mia, dove sono nato, e mi sarei goduto l’infanzia”. “Io sono Johnson e dal 2014 vivo in un altro campo per sfollati, blocco B, settore 2”, gli fa eco il suo compagno: “Qui la vita non è buona. Vogliamo la pace per tornare a casa”. “Era un venerdì sera, quando i ribelli fecero irruzione nel nostro villaggio”. Per le ragazze del Sud Sudan, al centro della quattordicesima e ultima stazione della Via Crucis, quella data rimane indelebile: “Ogni giorno eravamo maltrattate nel corpo e nell’anima. Spogliate di abiti e di dignità, vivevamo nude perché non scappassimo”.

Fonte: Sir
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