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scuola di dottrina sociale della chiesa

Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, ieri sera a Cesena: "Da qualche decennio assistiamo a una rivoluzione silenziosa. Quella biologica e quella tecnologica"

Seconda serata, dopo quella con l'economista Leonardo Becchetti. Martedì prossimo ci sarà padre Francesco Occhetta, scrittore della Civiltà cattolica

Nella foto, il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli

Comunità, solidarietà e democraticità. Sono queste le tre direttrici sui cui si è sviluppata la riflessione del professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale e già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, nonché consigliere generale presso lo Stato della Città del Vaticano, nella seconda lezione della scuola di Dottrina Sociale dal titolo “La comunità politica e la comunità internazionale”. Una riflessione sui principi che fondano il nostro ordinamento costituzionale, che è andata ad intrecciarsi con gli inevitabili risvolti politici e istituzionali attuali.

“Cosa possiamo affermare con l’espressione “comunità politica”? Solo l’apparato statale? O forse dobbiamo intendere tutte le aggregazioni e le formazioni che animano il tessuto sociale? – ha domandato Mirabelli ai presenti – È in quest’ottica che ogni cittadino, ancor più se cristiano come ci richiama la Dottrina sociale della Chiesa, ha la responsabilità di animare le realtà temporali, assumendosi le responsabilità della sfera istituzionale e politica nella sua accezione più ampia, come era per la polis”. Primo passo per la concretizzazione di questo intervento è il riconoscimento di diritti condivisi, come espressi nella nostra Costituzione. “È interessante notare come la Carta costituzionale, non imponga a tutti i cittadini una stessa visione di pensiero e azione, ma li impegni in un’ottica di solidarietà politica, economica e sociale. Dato che nessun individuo è una realtà isolata, la sua realizzazione passa dalla consapevolezza di appartenere ad un destino comune, come in una famiglia – ha sottolineato il giurista – Ecco perché solidarietà e comunità devono essere filo conduttore della comunità politica a partire proprio dai principi della Costituzione”. Un forte invito dunque a coltivare e a valorizzare forme di integrazione solidali e a far fiorire i corpi intermedi a più livelli, in un’epoca in cui la narrazione dominante e più convincete sembra essere di tenore opposto. “Proprio i corpi intermedi – ha ribadito il professore – sono l’attuazione della sussidiarietà verticale, che cerca il coinvolgimento dei cittadini per svolgere compiti e risolvere problemi che siano alla loro portata, anche con il necessario sostegno economico dello Stato”. E a chi gli chiede quale rischio comporti un superamento di questi livelli mediani a favore di una rappresentanza più diretta risponde “la democrazia si nutre sulla convinzione e sull’adesione ad un consenso, costruito sulla base del colloquio e del confronto. Forme di democrazia diretta sono possibili, ma efficaci se in piccole comunità. Il pericolo è la degenerazione in democrazia plebiscitaria, in cui si spegne il contraddittorio. Specie se si approva tutto con un sì o un no. Quando manca la terzia via, un placet iuxta modum, per dirla in termini ecclesiastici, il confronto si cristallizza – ha aggiunto - e non c’è spazio per l’ascolto o magari per il ripensamento. Caratteristiche della democrazia sono la discussione e la mediazione”. Una riflessione che ha portato i presenti discutere sui limiti di una sovranità popolare, esercitata nel nostro sistema repubblicano e che oggi sembra invece portatrice di una espressività illimitata. “Non è vero che la sovranità non ha limiti – ha ribadito Mirabelli – la Costituzione lo dice espressamente. Esistono delle regole che governano l’esercizio della sovranità popolare. Se io volessi introdurre la pena di morte per volontà popolare, potrei farlo? Se io intendessi introdurre azioni discriminatorie tramite sovranità popolare, potrei compierlo? No – ha risposto - perché il limite della sovranità si scontra con la superiorità dei diritti inviolabili, la cui violazione risulterebbe illegittima, perché in contrasto con il nostro ordinamento”. Un limite quello posto alla sovranità che passa anche per la scelta dei singoli stati di aderire a comunità aggreganti più ampie, come l’Unione europea. Tema caldo alla vigilia delle prossimo rinnovo dell’europarlamento e che ha suscitato numerosi interrogativi tra i presenti. “Parlare di comunità europea o comunità internazionale oggi appartiene ad una visione ottimistica della politica, poiché spesso appaiono più i conflitti delle unità. Ma la stessa Unione europea nasce dalla volontà di cessione di quote di sovranità per garantire pace e giustizia. Pensate a quale grande intuizione fu la Ceca – ha spronato i presenti - nata dopo decenni di guerre tra Francia e Germania per il dominio delle regioni carbonifere. Eppure questo accordo trovò una formula per una pace duratura. Quale grande periodo di non belligeranza sta attraversando il nostro continente, forse il più lungo mai conosciuto”. E sul rapporto tra il nostro paese e l’Europa ha aggiunto “oggi sembriamo essere i primi della classe nel voler istituire norme rigide nel nostro ordinamento, ma in altri ambiti siamo gli ultimi a rispettarle” con chiaro riferimento alla flessibilità economica.

Tuttavia il diritto non si presenta come una monade immutabile e a fine serata il professore lascia spazio per un accorato appello “da qualche decennio si sta verificando una duplice rivoluzione silenziosa: quella biologica che concerne la manipolazione umana, assieme a quella tecnologica e cibernetica. In quest’ottica anche i diritti fondamentali” che dovrebbero essere i più robusti nella loro formulazione “rischiano di essere relativi al contesto storico”. “Non esistono diritti inviolabili se non c’è una coscienza comune a sostenerli. Persino il concetto di essere umano potrebbe cambiare – ha concluso – e le nuove tecniche di utero in affitto, di fecondazione artificiale o di clonazione ne sono la testimonianza. Occorre dunque vigilare e approfondire il dibattito, perché non si aprano negli ordinamenti nuove forme di schiavitù”.

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