Valle Savio
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pieve di rivoschio

Trecento ettari di passione e lavoro

Nella Valle del Borello. E lunedì scorso si è riunito per la prima volta un tavolo di lavoro regionale sull'economia castanicola

Trecento ettari di passione e lavoro

Si taglia l’erba, si rastrella, si raccoglie, si pota, si pianta, si innesta, si disinfesta. Anche se le piante sono talvolta enormi, contano fino duecento anni di vita e non crescono proprio sotto casa e le misure di una castagneta non sono esattamente quelle dell’orto, il lavoro alla fine è sempre lo stesso: testa bassa attaccata alla terra, da mattina a sera, finchè c’è bisogno.

A raccontarlo è Ombretta Farneti, proprietaria di un castagneto a Pieve di Rivoschio e presidente del Consorzio del Marrone Dolce di Pieve di Rivoschio, una delle tre associazioni di castanicoltori riconosciute in Emilia Romagna (le altre due sono a Marradi e Castel Del Rio).

È di alcuni giorni fa la notizia dell’istituzione di un tavolo di lavoro regionale sull’economia castanicola per trovare soluzioni e prospettive concrete per il comparto. Ma di quali numeri e persone stiamo parlando?

"Tutte le castagnete del territorio di Pieve di Rivoschio sono associate”, spiega la presidente Farneti riferendosi all’associazione attiva da 15 anni con l’obiettivo di fare economie a favore degli associati e consentire a tutti una gestione funzionale delle varie operazioni, dall’innesto, alla potatura, all’acquisto di materiali e prodotti fino all’organizzazione della distribuzione. In totale gli associati gestiscono un centinaio di ettari di castagneti, un terzo di quelli presenti nella Valle del Savio (il castagno cresce dai 400 metri in su) in cui si stima che il comparto dia lavoro a 150 persone. Una castagneta di un ettaro, spiega, produce a pieno regime circa 20 quintali di castagne. Un’importante integrazione del bilancio familiare pur tenendo presente che quando al mercato si trovano a sette/otto euro al chilo, nelle tasche dei produttori ne arrivano tre.

“Le nostre castagnete - spiega la coltivatrice - sono composte da esemplari autoctoni. Noi usiamo tecniche naturali, biologiche”.

Utile un tavolo di lavoro? Quali problemi dovete risolvere?

“Sì, utile. Infatti aspetto che ci chiamino. Siamo tornati a raccogliere le castagne dopo quattro anni di lotta contro la vespa cinese. Ora abbiamo a che fare con la cydia fagiglandana e splendana, che compromettono buona parte del raccolto. Dalla regione abbiamo bisogno di aiuto per affrontare questi problemi. Tra i nostri intenti c’è anche quello di ripristinare castagnete abbandonate, per garantire continuità alla produzione. C’è poi tutto il capitolo della commercializzazione del prodotto”.

Oltre alla raccolta e alla vendita delle castagne, il settore comprende tutta la parte della commercializzazione e della trasformazione, dalle farine ai vari lavorati. “Sono anni che si parla di attivare un mulino e un essiccatoio per poter consentire ai vari produttori, anche piccoli, di utilizzare al cento per cento il loro raccolto. Anche di questo dobbiamo riferire al tavolo”.

Lei apre le castagnete alla raccolta pubblica e accoglie le visite delle scuole. Una passione totalizzante?

“Noi montanari siamo così, attaccati alla montagna, ce l’abbiamo nel sangue, non vogliamo andare in città, vogliamo rimanere qui. Facciamo di tutto per curare il nostro territorio, investire nel castagneto significa investire per i nostri giovani”.

Ma i giovani restano in montagna?

“Sì, pochi vanno via. Magari scendono in pianura, lavorano a Cesena, a Ravenna, a Forlì, ma poi la sera tornano qui. Vede quelle case là? Io so chi ci abita, una per una. E loro conoscono me. Qui sappiamo chi siamo, ci vogliamo tutti bene”.

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