A Roma il Giubileo dei detenuti. Marco: “L’incontro con Gesù ha cambiato la mia vita”

"I volontari in carcere mi hanno fatto aprire il cuore. Mi incoraggiavano, dicendomi che quando sarei uscito avrei potuto fare qualcosa di buono"

Foto Marco Calvarese / AgenSir

Non è un “destino” scritto per sempre anche se più volte si è sbagliato molto. A darci la sua testimonianza un uomo, un tempo ateo, che dopo due arresti ha intrapreso una strada diversa grazie a volontari e poi agli operatori della pastorale carceraria della diocesi di Napoli che gli hanno fatto conoscere, con la vita, la misericordia di Dio

Quarantadue anni vissuti intensamente. Una vita non facile

Cinque anni vissuti in un istituto, lontano dalla famiglia, tanta rabbia nel cuore, le amicizie e scelte sbagliate, il carcere, incontri decisivi che cambiano tutto perché fanno conoscere Colui che dà veramente speranza: Gesù. È la storia di Marco, per la privacy non useremo il cognome, di Napoli. Oggi, dopo un passato difficile e doloroso, è una persona nuova e racconta la sua storia in occasione del Giubileo dei detenuti, per dire a chi è ancora dentro che c’è sempre speranza, che basta fidarsi di chi vuole veramente il tuo bene, non delle sirene dei guadagni facili che offre la camorra, e cambiare dentro per guardare al domani in modo diverso.

Marco, cosa ti ha portato in carcere?

Quello che è successo è scaturito da un insieme di situazioni del mio passato, di quando ero bambino, ho raccolto molta rabbia e non l’ho mai tirata fuori, quindi c’era una bomba dentro di me che voleva scoppiare. Cadevo sempre in depressione, ho fatto uscire fuori questa rabbia in modo negativo. Ho fatto parte di un’associazione camorristica, non nel ruolo del “gruppo di fuoco”, ma vicino a un capoclan e sono stato condannato per favoreggiamento della sua latitanza e per associazione a delinquere. Dopo il primo arresto nel 2008 sono stato in carcere a Poggioreale, per il secondo a Bellizzi Irpino, per gli stessi reati nel 2011, poi sono uscito nel 2016.

Che cosa è cambiato in carcere? Che cosa ti ha fatto scattare quella molla per dire: “Voglio cambiare”?

A Poggioreale sono stato un anno e mezzo e non c’è stato un cambiamento. Invece, a Bellizzi Irpino ho avuto una serie di incontri fondamentali e importanti in carcere, grazie a volontari, ho frequentato una scuola per geometri e mi sono diplomato. I volontari mi hanno salvato perché la vita in carcere è molto dura e senza percorsi di rieducazione e senza attenzioni nei miei riguardi sicuramente sarei uscito dal carcere ancora più arrabbiato di prima. Inizialmente, ero diffidente verso i volontari, come lo sono tutti i detenuti, e mi chiedevo: chissà perché vengono, chissà che vogliono in cambio. Poi ho capito che erano persone generose, che malgrado i loro problemi venivano e mi donavano gratuitamente il loro tempo. Da bambino sono stato per cinque anni nell’Istituto del Volto Santo, perché i miei divorziati non avevano possibilità di mantenermi, e ho sofferto per mancanza di attenzioni. Invece i volontari che si preoccupavano di me in carcere, di come stavo, che avevano tante attenzioni, tanta gentilezza, calore e affetto per me mi hanno fatto aprire il cuore. E mi incoraggiavano, dicendomi che quando sarei uscito avrei potuto fare qualcosa di buono, non dovevo per forza tornare alla vita di prima. Mi hanno dato speranza e questa piccola luce me la sono portata fuori. Il trasferimento in comunità nella struttura della pastorale carceraria della diocesi di Napoli, dal 2016 al 2018, poi, ha cambiato tutto per me.

Cosa è successo?

Ormai sono dieci anni che sono a Napoli, collaboro con la pastorale carceraria di Napoli, ho fatto l’operatore e oggi ci sono nelle vesti di volontario come manutentore, per me è la mia famiglia, il mio punto di riferimento. Non mi sento assolutamente una persona arrivata, per me il lavoro continua ancora, il lavoro di fermarsi ogni tanto, di riflettere, di fare un po’ di introspezione, di ragionare un po’ con la coscienza. È stato l’incontro con la pastorale carceraria che mi ha educato a questo, mentre devo dire che in carcere purtroppo ti devi solo difendere. Il sovraffollamento è una forma di tortura. Sono stato in una cella di 25 metri quadri con altre 10 persone oltre a me, ho dormito sulla terza branda a 50 centimetri dal soffitto, mi affacciavo giù e vedevo altre 10 teste che giravano per la stanza, non mi veniva neanche voglia di scendere, perché non c’era spazio. Per non parlare del bagno e dell’abbandono assoluto dell’area educativa.

La vera svolta è avvenuta, dicevi, con il centro della pastorale carceraria diocesana di Napoli e l’Associazione Liberi di Volare della stessa pastorale carceraria…

Sì, grazie a queste due realtà che mi hanno fatto incontrare persone che mi hanno dimostrato l’amore in modo disinteressato. All’inizio questo ha destato in me meraviglia, non credevo che esistesse un mondo così. Sono stato molto sostenuto da tutti gli operatori, ognuno ha fatto la sua parte. Il centro per me non è la struttura in sé per sé, ma sono le persone che lo formano e io sono orgoglioso di esserne ancora parte.