Barberis (Apg23): “Il carcere misura il grado di civiltà del nostro vivere. Per noi sono volti da incontrare”

Ieri sera il primo di una serie di tre incontri. "Quando preghiamo con il Padre nostro, chiediamo perdono al Padre e ci diciamo disponibili a perdonarci tra noi. L'indifferenza è il male più grande”

Nella foto un momento dell'incontro di ieri sera, in seminario a Cesena. Da sinistra: Ivan Bartoletti Stella, direttore della Caritas diocesana, Bartolomeo Barberis della comunità papa Giovanni XXIII e Marco Castagnoli, commissione diocesana Gaudium et spes
Nella foto un momento dell'incontro di ieri sera, in seminario a Cesena. Da sinistra: Ivan Bartoletti Stella, direttore della Caritas diocesana, Bartolomeo Barberis della comunità papa Giovanni XXIII e Marco Castagnoli, commissione diocesana Gaudium et spes

Gli ammalati e i carcerati. Si tratta di “due condizioni – nota Barberis – in cui la sofferenza umana raggiunge picchi inauditi”, anche perché, è bene non dimenticare, che “il carcere misura il grado di civiltà delle società in cui viviamo”

La Comunità educante con i carcerati

“Solo vedendo quei volti si capisce”. Parola di Bartolomeo (Meo) Barberis, responsabile della Comunità educante con i carcerati (Cec) che ha sede a Malmissole (Forlì). La Cec è uno dei modi con cui la Comunità papa Giovanni XXIII traduce in pratica il lascito del fondatore, il sacerdote riminese e servo di Dio don Oreste Benzi, per molti già santo.

Una serie di tre incontri

Barberis ne ha parlato ieri sera in seminario a Cesena, al primo di una serie di tre incontri dal titolo “Chiamati ad allargare gli spazi delle nostre tende”. Le serate sono promosse dalla Caritas diocesana guidata dal direttore Ivan Bartoletti Stella e dall’ufficio diocesano Gaudium et spes, con Marco Castagnoli come responsabile. (cfr pezzo al link qui sotto)

Il perdono, il dono più grande

Per illustrare il progetto delle Cec, Barberis parte dal perdono. “È il dono più grande che un uomo può fare a un altro uomo – dice -. Don Benzi ricordava sempre che una persona non è mai il suo errore. Per primi siamo sempre perdonati da Dio e noi, quando preghiamo con il Padre nostro, chiediamo perdono al Padre e ci diciamo disponibili a perdonarci tra noi”.

Il Giudizio finale, in Matteo 25

Il capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, nel brano dedicato al “Giudizio finale”, indica le domande che ci verranno poste un giorno, nella nostra vita. Tra queste, due riguardano la visita a due categorie di persone: gli ammalati e i carcerati. Si tratta di “due condizioni – nota Barberis – in cui la sofferenza umana raggiunge picchi inauditi”, anche perché, è bene non dimenticare, che “il carcere misura il grado di civiltà delle società in cui viviamo”.

Recidiva bassa per chi è ammesso a misure alternative

Essere privati della libertà, insiste Barberis, “è una delle condizioni peggiori, ma per comprenderlo occorre vivere quell’esperienza, incontrare quei volti. Non avere la libertà è contro la natura umana”. In Italia il periodo di detenzione dovrebbe essere rivolto alla rieducazione, ma questo spesso non avviene. Anzi, la cosiddetta recidiva, cioè il ritorno dietro le sbarre di chi esce una prima volta è del 68 per cento per chi viene detenuto. La percentuale si abbassa molto, attorno al 16 per cento, per chi usufruisce di misure alternative.

Storie di privazione affettiva ed educativa

Nel nostro Paese, fa notare Barberis, siamo in presenza di un sistema carcerecentrico, anche perché vittime di questa mentalità, mentre non si vuole comprendere che la gran parte dei reclusi vengono da “storie di privazione affettiva ed educativa. Ecco perché ci vorrebbero dei percorsi che aiutino il recupero”. Invece siamo tutti presi dalla distinzione tra chi è dentro e chi è fuori, tra buoni e cattivi, come succedeva anche al tempo dei manicomi.

Rispettare sempre la persona

“Abbiamo bisogno di difendere la società da chi delinque – aggiunge Barberis – ma non possiamo non rispettare la persona, anche perché spesso il carcere si trasforma in una scuola di delitto. In quel luogo nessuno è contento di esserci, anche chi ci lavora, dal direttore in giù. Anche il personale soffre”. Tra i detenuti il tasso di suicidi è 22 volte superiore a quanto avviene fuori. In molti vi fanno fronte, racconta ancora Barberis, con il “carello della felicità”, quello con gli psicofarmaci, che aiuta a sopportare tutte le sofferenze. “Tutto il contrario rispetto alla rieducazione”, chiosa Barberis.

Superare l’indifferenza

Cosa fare, allora? Questa la domanda che interroga tutti, credenti inclusi, anche davanti alla pagina del Vangelo di Matteo. “Dobbiamo superare l’indifferenza – dice Barberis – il male più grande. Siamo chiamati a non abbandonare chi è recluso. Dobbiamo avere il coraggio della verità. Allora, vi dico: andiamo tutti in carcere, vincendo la paura inziale”.

Chi è in carcere è mio fratello

Chi si trova in cella, prosegue Barberis, “è mio fratello o mia sorella che ha il diritto di non essere abbandonato dalla società. Ecco perché abbiamo dato vita alle nostre comunità educanti con i carcerati e non per i carcerati. Perché la comunità non è facile da vivere, ma aiuta a vivere, a capire”, a smussare tanti angoli.

Esserci diventa importantissimo

“Questi sono come me – precisa Barberis – ma hanno storie diverse dalla mia. Alla radice c’è sempre un disagio affettivo/relazionale. Allora ci vuole il coraggio di farsi coinvolgere. Esserci diventa un messaggio potentissimo, ed è già tutto. Stare con loro, come Gesù che si è incarnato. E come Gesù vogliamo portare la nostra presenza umile”.

Recuperare la stima di sé

Il lavoro da solo non basta. Lo dice con sicurezza Barberis, in conclusione di incontro, sollecitato da diverse domande e dalle esperienze dei presenti. “Occorre il recupero di uno spazio per se stessi da dedicare alla spiritualità, al rapporto con gli altri, al dialogo con la famiglia d’origine, in modo da non sentirsi disprezzati”.

Toccare con mano questa umanità

Allora esserci “è un modo concreto di amare, è quello che ci chiede Gesù. Abbiamo bisogno di toccare con mano questa umanità, anche perché altrimenti rischiamo di difenderci dai poveri, dagli ultimi, bombardati come siamo da mille falsi bisogni. Vi invito ad andare nei villaggi dei Paesi africani più poveri per capire come gira il mondo”. Lì, forse, l’essenziale assuma un’altra dimensione.