Dal Mondo
La tregua che resiste alla guerra
L'appello di papa Leone XIV: "Rispettare, almeno nella festa della nascita del Salvatore, un giorno di pace"
Ricordare la tregua di Natale del 1914 significa interrogarsi sul valore delle pause nei conflitti di oggi, tra Ucraina e Gaza. Le tregue vere, anche se brevi e fragili, incrinano la retorica bellica e restituiscono spazio all’umano. Non sono pace, ma il primo passo possibile. Fermarsi diventa un atto morale, politico, profondamente necessario.
La tregua di Natale del 1914
A volte basta una notte per svelare ciò che mesi di propaganda avevano sepolto. La vigilia di Natale del 1914, nelle trincee delle Fiandre, soldati britannici e tedeschi smisero di sparare. Si cantarono inni, si scambiarono sigarette, seppellirono insieme i morti. Non durò. L’indomani la guerra riprese, identica. Eppure, per poche ore, la logica della violenza totale si incrinò sotto il peso dell’umano. Non vinsero la guerra, ma smascherarono una menzogna: l’idea che l’odio sia inevitabile, che il nemico sia un mostro, che uccidere sia l’unico linguaggio possibile. Fu una tregua breve, fragile, non autorizzata. Proprio per questo, vera.
L’appello di papa Leone XIV
A distanza di oltre un secolo, mentre l’Europa è di nuovo attraversata dalla guerra tra Russia e Ucraina, quella notte di Natale torna a interrogarci. Non come modello ingenuo da ripetere, ma come domanda scomoda: è davvero impossibile fermarsi, anche solo per un istante? Papa Leone XIV lo ha chiesto con parole dirette: “Rispettare, almeno nella festa della nascita del Salvatore, un giorno di pace“. Un appello che la Russia ha apparentemente rifiutato, ma che resta rivolto “a tutte le persone di buona volontà”: 24 ore, un giorno di pace in tutto il mondo.
L’umano è ridotto a variabile
Oggi la guerra è più tecnologica, più mediatica, più pervasiva. I droni sorvegliano dall’alto, colpiscono senza sguardo, cancellano anche la possibilità di un incontro. Non conosce silenzi. Non concede vuoti. È raccontata continuamente, sempre nello stesso modo, fino a diventare un’identità. In questo quadro, la tregua appare sospetta, quasi immorale. Fermarsi equivale a cedere. Respirare diventa tradimento. L’umano è ridotto a variabile.
Gesti minimi di pietà
Eppure, anche oggi, esistono tregue senza nome: corridoi umanitari, scambi di prigionieri, pause per evacuare civili, gesti minimi di pietà che non entrano nei comunicati ufficiali. Sono crepe sottili, subito ricucite dalla retorica bellica. Ma esistono. E dicono che la guerra non riesce mai a occupare tutto. Poi ci sono le tregue finte, quelle che portano questo nome ma non ne hanno la sostanza. A Gaza, dove pure è stato proclamato un cessate il fuoco, la parola “tregua” suona come una beffa. Perché, nonostante la dichiarata cessazione delle ostilità, centinaia di persone hanno continuato a essere uccise o a subire gravi ferite. Molti altri hanno subito violenti attacchi contro se stessi, le loro proprietà, le loro libertà. La tregua proclamata non restituisce dignità, diventa solo una pausa tecnica della violenza, un intervallo che non cambia nulla. È la distanza più crudele: quella tra le parole e i corpi, tra gli annunci sulla pace e le violenze che non si fermano, tra i negoziati e la sofferenza che continua.
Restituire tempo umano
Una tregua non è la pace. Illudersi del contrario è pericoloso. La pace è un processo lungo, faticoso, politico, che chiede responsabilità, compromessi, memoria. Ma senza tregue vere la pace non inizia nemmeno. Perché non si costruisce nulla mentre tutto brucia. E non si negozia quando l’odio occupa ogni parola. La tregua serve a questo: a restituire tempo umano. A ridare un volto al nemico. A ricordare che sotto le uniformi, le bandiere e le narrazioni assolute ci sono uomini, donne, famiglie, storie. Serve a rendere la guerra, finalmente, moralmente insostenibile. Quando invece diventa solo una pausa formale, perde il suo senso più profondo: quello di far intravedere, anche per un istante, che un’altra strada è possibile.
Rifiutare l’anestesia morale
Il Natale non è una soluzione geopolitica. Ma è una lente spietata. Rivela l’assurdità di una violenza che pretende di essere inevitabile proprio nel giorno in cui si annuncia una pace fragile, disarmata, affidata alla carne. Non ferma le armi, ma interroga le coscienze. E davanti a tregue che esistono solo sulla carta, quella lente diventa ancora più necessaria: per distinguere ciò che salva da ciò che inganna, ciò che riconosce l’umano da ciò che lo sfrutta come merce di scambio.
Ricordare la tregua di Natale oggi non significa chiedere gesti simbolici o indulgenze facili. Significa rifiutare l’anestesia morale. Significa dire che la pace non nasce tutta intera, ma da pause imperfette, da spiragli, da atti che sembrano inutili e invece preparano il terreno. Il Natale non ferma le guerre. Ma le mette a nudo. E mette a nudo noi, se abbiamo smesso di credere che fermarsi sia ancora possibile.
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