Il day after è qui

La parola è: attenzione. Ha scritto Agostino Giovagnoli, storico della filosofia all’università Cattolica di Milano, su Avvenire di domenica scorsa, che «per l’attuale leadership americana democrazia coincide con libertà senza limiti, che nei fatti significa sempre più spesso libertà del più forte di opprimere il più debole».

Ma, prosegue il prof, «la democrazia si difende anzitutto contrastando la legge della giungla, come cerca di fare l’umanesimo europeo». Conclude Giovagnoli mettendoci in guardia: «Se non vogliamo trovarci presto in un day after in cui non sarà più possibile fare nulla, dobbiamo impegnarci adesso in una resistenza dal basso – diffusa, organizzata, tenace – anche morale e culturale oltre che politica».

Non possiamo dire di non essere stati avvisati. L’invito è chiaro: attenzione.

Lo scrive chiaro Giovagnoli: «una resistenza dal basso». Il rischio è di vedere trasformate le maggiori democrazie al mondo, quelle cui ci siamo sempre ispirati, Usa in primis, in democrazie illiberali. Il proliferare di executive order emanati dal neo presidente Donald Trump va in questo senso, con il capovolgimento delle funzioni attribuite ai diversi poteri di uno stato democratico.

Il governo dovrebbe mettere in atto leggi emanate dal parlamento e non sostituirsi a esso. Lo stesso avviene da anni anche in Italia, con gli esecutivi che confezionano riforme a suon di decreti che si cumulano e si contraddicono negli anni, con l’avvicendarsi delle diverse coalizioni. I governi di mezzo mondo travalicano i poteri loro assegnati dalle varie costituzioni.

Dobbiamo prenderne atto. E che oggi questo accada al di là dell’Atlantico e nella forma che vediamo, con i magnati delle maggiori aziende high-tech nelle vesti di consulenti del presidente, getta molte ombre sul futuro, e sul presente, dei Paesi democratici.

Sempre su Avvenire di domenica scorsa, Nello Scavo ha affrontato il tema dell’esclusione dei giornalisti dell’agenzia Associated press da alcuni appuntamenti organizzati dalla Casa bianca. Motivo? Si rifiutano di chiamare il Golfo del Messico col nuovo appellativo Golfo d’America, come vorrebbe Trump. Sciocchezze, dirà qualcuno. Invece è un fatto gravissimo, in linea con la situazione descritta sopra. E pensare, commenta Scavo, «che sia solo un problema che riguarda dei gringos di Washington vuol dire non avere capito che le acque del Golfo d’America, per così dire, bagnano anche le nostre spiagge».

Prima ce ne accorgiamo, meglio è.