Speranza concreta
Un piano per Gaza. Alla fine è arrivato. E pare pure spendibile. Un documento sul quale Hamas è chiamata a uscire allo scoperto. È stato il presidente Usa Donald Trump a metterlo nero su bianco, dopo aver trovato l’appoggio di diversi Paesi arabi e musulmani.
«Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan Turchia Qatar ed Egitto – leggo sul sito del Sole 24 ore di martedì 30 settembre – hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui accolgono con favore gli sforzi di Trump per porre fine alla guerra a Gaza, dicendosi pronti a cooperare positivamente con gli Usa per finalizzare l’accordo e garantirne l’attuazione». Si apre uno spiraglio per la fine delle ostilità. Non sarà semplice ottenere i necessari sì per procedere, ma almeno qualche passo è stato compiuto. Il piano dovrebbe, tra le varie cose, riportare a casa tutti gli ostaggi israeliani vivi e morti, sancire la fine delle operazioni militari di Israele con la liberazione di detenuti palestinesi e la ripresa della distribuzione degli aiuti umanitari a chi è rimasto e permettere ai gazawi di rimanere nella loro terra.
Qualcosa era necessario. In quel fazzoletto di terra la gente continua a morire sotto le bombe, di stenti, di fame. Tutto questo non è tollerabile, non è più ammissibile, dopo due anni di continui attacchi e conseguenti esodi: una volta verso sud, un’altra verso nord. Poi si torna indietro, in fuga da Gaza city, a pochi chilometri di distanza, in mezzo alla polvere, alle carcasse di auto, ai carri armati che entrano nelle case e colpiscono i grattacieli, quelli ancora in piedi.
Non sappiamo quasi nulla di ciò che accade là dentro. Di quel che succede a quei due milioni di disperati cui vengono negati anche gli aiuti umanitari. Senza lo sguardo e la voce dei giornalisti che il governo israeliano non lascia entrare, nessuno può sapere cosa succede, perché non arrivano farina e acqua. Un Paese straniero tiene in scacco una popolazione ostaggio di un gruppo di terroristi. In mezzo rimangono loro: vecchi, donne, bambini e anche uomini.
La comunità cattolica rimane, presidia quel che può. Il parroco, padre Romanelli, non demorde. Nei locali parrocchiali ci sono 450 rifugiati, tra loro anziani, malati e disabili non trasportabili, accuditi dalle suore di Madre Teresa di Calcutta. In mezzo al disastro più completo c’è ancora chi è capace di farsi prossimo verso i più soli e abbandonati. Un segno di concreta speranza nel cuore di una tragedia che tutti vorremmo finisse.
