Diocesi
Vacanza delle famiglie di Cl. La montagna, la compagnia e le testimonianze
In 400 a Pragelato, in provincia di Torino, fino a domani. Giornate in amicizia e di condivisione
Don Luca Montini racconta del suo incidente in Africa e delle conseguenze che gli hanno cambiato la vita
Nulla escluso nelle giornate vissute assieme
Così in tanti, in 400, e così variegati, da pochi mesi di età fino a 80 anni e oltre, per le ferie da trascorrere assieme, sarebbe già una notizia. Mentre la cultura dominante propone vacanze esotiche nel segno del divertimento sfrenato a ogni costo, Comunione e liberazione offre alle famiglie un’esperienza da condividere. Nulla viene tralasciato: dalle gite in alta montagna al gioco, dalle serata di musica alla presentazione di libri, per passare dalle testimonianze alla Messa e alla preghiera quotidiana da vivere assieme.
Il racconto di don Luca Montini, giovane sacerdote
È toccato a don Luca Montini, sacerdote bresciano della fraternità di San Carlo Borromeo, qualche sera fa, proporre il primo incontro con testimoni. “Quando mi sono toccato le gambe – racconta della sua vita – è stato il momento più buio mai vissuto”. Prima c’era stato un incidente in moto in Kenya. Nove interventi chirurgici, fino all’amputazione necessaria, in Italia, che pareva avere reso il don consapevole e cosciente anche delle conseguenze. Ma la realtà è sempre dura da affrontare. “Il futuro mi appariva un disastro – continua – il passato una presa in giro, il presente mi si presentava come un dolore fortissimo”. Poi aggiunge: “Ho chiesto il miracolo e guardate come è andata a finire”.
Il miracolo non arriva
Come porsi davanti al miracolo chiesto che poi non arriva? Rimane un dilemma, anche per chi, ancora giovane prete, deve confrontarsi con una disabilità cui nessuno avrebbe mai potuto pensare. Ma, dice il sacerdote, “Dio mi ha sempre dato qualcosa di diverso rispetto a quello che avevo in mente, ma a me più corrispondente”.
“Avevo la mie domande nel cuore”
La realtà rimane in ogni caso durissima da affrontare. Don Luca, dopo l’amputazione, prosegue nel ricordo, resta due settimane sotto le coperte, “con le mie domande nel cuore. Chiesi di rivedere lo psicologo che mi disse: devi ripartire dalla domanda: chi sono io? Sono un prete missionario in Africa, direttore di un ospedale. E mi domandavo: potrò ancora fare sport?”.
Siamo doni in quanto figli
Poi l’incontro con un’amica dei tempi del liceo. “Mi guardava felice perché c’ero io – dice ancora il don -. Non per quello che avevo fatto. Io sono un dono perché ci sono. Adesso insegno a scuola, alle superiori”, e diventa decisiva la scoperta di essere amati perché siamo figli”. Vale per tutti. “Tu sei mio figlio e sei un dono per me”.
“Dovevo accettare quella croce”
Ci vuole un anno di fisioterapia dura per tornare a camminare. Questo deve superare don Luca, uno che non si perde d’animo. Il futuro è a Brescia, in diocesi, negli oratori, “ma non riuscivo a reggere neppure quei ritmi lì”, chiosa il prete che a quel punto venne a trovarsi “di nuovo in panchina”. Dio, aggiunge, gli chiedeva di essere ancora di più il sacerdote e di consegnare i suoi figli a sua Madre. “Mi sono reso conto – prosegue – che Dio mi stava chiedendo qualcosa di ancora più vero. Dovevo accettare quella croce. Sono dovuto rimanere a letto altri quattro mesi. Poi sono stato posto davanti all’alternativa: o cappellano all’ospedale o a scuola, a insegnare religione. Ho scelto la scuola e non fare cambio. Per i canoni del mondo, potrebbe sembrare niente. Invece mi sorprendo con un fuoco dentro… E mi sento felice, col cuore pieno”.
Il dramma rimane, nella sua interezza
La questione, fa intendere il sacerdote, è quella di meritarsi “l’amore delle persone che ti guardano. Dio dona sempre qualcosa per cui si possa alzare lo sguardo, purché si sia disposti a vedere ciò che Lui ci pone davanti. Siamo capaci di abbracciare ciò che lui ha abbracciato per noi?”. Il dramma rimane, nella sua interezza. Non scompare, lo fa intendere benissimo don Luca che dice, rispondendo ad alcune domande: “Se potessi guarire del tutto, sarei felice. Attorno a me accadono fatti che mi rendono felice, ma in maniera diversa. È il Signore che riempie il cuore. Adesso vado a parlare a chi deve subire un’amputazione. E dico: anche se non corri, vai bene lo stesso”.
“L’amputazione non è l’ultima parola sulla mia vita”
Ma come si fa ad accettare incidenti del genere? Dio perché permette tutto questo? “Dio non ha creato né la morte né il male che non è l’ultima parola sulla realtà. Gesù Cristo è risorto e anche l’amputazione che ho subito non è l’ultima parola sulla mia vita. Tutti noi, insieme, camminiamo e barcolliamo verso l’unico Signore che può riempirci il cuore”.
Nella giornata di ieri sono state proposte quattro testimonianze di persone impegnate in campi variegati e provenienti da esperienze diverse. La traccia della riflessione si è mossa dalla lettura del recente libro di don Luigi Giussani “L’incontro che accende la speranza”.

Claudio: “Sembrava fossi un appestato”
Per Claudio, dal gennaio scorso coordinatore del blocco operatorio dell’ospedale “Bufalini” di Cesena, “quello che viviamo qui è vero anche fuori”, altrimenti non ha senso. Ricorda che a una recente cena dopo la sua promozione si è trovato da solo, senza nessuno vicino. “Sembrava fossi un appestato”, sottolinea. Invece, aggiunge, “per me il capo deve essere a servizio di tutti, ma l’abisso che si è creato con i miei colleghi mi fa fare una fatica terribile”. La stessa difficoltà che vive anche con i superiori quando gli viene chiesto di non interessarsi troppo di alcune vicende che a lui starebbero a cuore. Cosa c’entra la speranza? “È qualcosa di concreto per me, per vivere da uomo nuovo. Gli altri li cambia Gesù. A me è chiesto di convertirmi ogni giorno”.
Piero: “Il movimento mi ha dato una risposta agli interrogativi sulla vita”
“Le domande su chi sono, se ero desiderato, perché sono nato, mi hanno accompagnato tutta la vita”. Lo dice Piero che aggiunge: “Il movimento ha dato una risposta a questi miei interrogativi. Mi chiesero di fare caritativa con dei ragazzi disabili. Anche in quel caso mi chiedevo: chi li ha voluti, chi sono? Ho bisogno che qualcuno mi dia il coraggio di guardare fuori di me”. Lo stesso desiderio per la caritativa a Piero torna anche da adulto, qualche anno fa. “Cerchiamo di stare vicino a chi ha bisogno da adulto, da anziano, come Gabriel, 55 anni, colpito da un ictus, ricoverato al “Don Baronio”, a Cesena. “Gli dico – aggiunge Piero – di pregare per i bambini e lui ci sta”. Ecco, conclude Piero, quello che è scritto nel Vangelo fa la differenza: da questo vi conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri. Ecco cosa ci tiene qui insieme, anche se veniamo da mondi tanto diversi”.
Antonio: “È stato Cl che mi ha appassionato al lavoro”
Antonio, 48 anni, amministratore delegato di un gruppo che conta 3.000 dipendenti, ammette che “solo dopo aver incontrato il movimento (di Cl, ndr) mi sono appassionato al mio lavoro, dopo esperienze fuori azienda e in quella di famiglia che ha fatto i conti con il ricambio generazionale”. Comunque, aggiunge, “oggi che ci sono corsi su tutte le materie per sezionare la realtà e avere specialisti, non ci sono e non si fanno corsi su come si può essere persona”. Il cambiamento autentico, per Antonio, arriva quando conosce “persone intere, non integre. E poi le nostre figlie ci hanno riavvicinato al movimento. Quello che ci è capitato o è una roba da ragazzi o è vera”.
Marzia, vedova: “Solo Cristo riesce a colmare questa mancanza. Libera di seguire e obbedire”
“Ho incontrato il movimento da ragazzina – dice Marzia, 69 anni, sette figli e otto nipoti -. Ero impegnata in parrocchia, nel centro culturale, nell’Agesc (Associazione genitori scuole cattoliche). Poi l’adolescenza dei nostri figli ci ha spiazzato. Uno di loro è entrato in comunità. Per noi è stata una ferita, quella di dover riconoscere il fallimento come genitori. L’entrata in comunità di Marco ha coinciso con lo sgretolamento dei nostri punti fermi…”. Poi la vita di Marzia ha alla fine incontrato il volto della misericordia e ha dato una svolta al nostro modo di stare dentro la Chiesa e dentro la comunità. Nel 2020 arriva la malattia del marito. “Il tempo è poco – dice Marzia, ricordando quei momenti -. Ricordo che Sandro mi disse che si stava innamorando ancora di me, quando mi aspettava in ospedale in attesa dell’esito dei suoi esami. Mi ringraziava perché lo andavo a trovare. Era un ammalato docile”. Una malattia che è stata rapida, ma per Marzia e i suoi “una grazia dentro a un popolo”. Sandro muore nel 2023. “Cristo è l’unico che può colmare questa mancanza. Mi ha aiutato molto essere tornata a tenere il corso ai fidanzati. Siamo fatti per un amore eterno e la vita continua in un compimento totale, cui tutti miriamo”. Lo stesso destino, quello di ciascuno di noi. “Ho chiesto di entrare in un gruppetto di fraternità – conclude Marzia – per capire cosa significa seguire e obbedire. Per essere liberi. Liberi di seguire. E io seguo perché emerga sempre di più Cristo nella mia vita”.