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Don Rino Casali, "grazie a lui abbiamo scoperto la bellezza della misura alta della vita cristiana"

Il ricordo del sacerdote morto un anno fa nelle parole di Antonio Belluzzi e Francesca Biribanti

Don Rino Casali, "grazie a lui abbiamo scoperto la bellezza della misura alta della vita cristiana"

A una anno dalla morte, il sacerdote diocesano don Rino Casali è stato ricordato la scorsa settimana con una Messa a suffragio nella parrocchia di San Pietro, a Cesena. Per l’occasione sono state lettere alcune testimonianze che don Walter Amaducci, parroco di San Pietro e amico di don Rino, ci ha recapitato. Una di queste, a firma di Grazia Cantoni, è stata pubblicata a pag. 13 sul Corriere Cesenate in edicola e nelle case degli abbonati da oggi. Di seguito, pubblichiamo le altre, a firma di Antonio Belluzzi e Francesca Biribanti.

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Don Rino era un uomo capace di parole che colpivano il cuore perché diceva ciò che ci era necessario in quel particolare momento della nostra vita. Ce le ripeteva ancora e poi ancora, fino a che non ne eravamo conquistati; e le parole scolpivano l’esperienza che ognuno di noi faceva. Le parole erano incontro, fede, comunità, carità, meditazione: cosa desiderava il nostro cuore di ragazzi, e poi di giovani, se non la felicità e la libertà? Don Rino sfruttava questo desiderio del cuore per farci incontrare Chi anche per lui era diventato l’essenziale

Ogni situazione gli era congeniale per richiamarci all’evidenza che l’essenziale era Gesù. Questo incontro lo potevamo fare nella comunità, nell’amicizia tra noi, a due condizioni: la prima era la fedeltà ai gesti della comunità e la seconda è il lavoro personale. La lettura del Vangelo era per noi occasione di ascoltare Gesù stesso: don Rino ce lo raccontava come vividamente presente, come se i fatti accadessero adesso, davanti a noi. E ciò stupiva non solo noi ma anche i nostri genitori e chi era presente. Ci richiamava sempre a una Presenza ed era necessario che noi fossimo attenti a vederlo. Così cominciavamo a fidarci di Gesù e la fede era lo strumento con cui il nostro cuore cambiava: nei rapporti tra di noi, con i nostri amici, la famiglia, i professori. Don Rino ci richiamava a una fede pensata, meditata, approfondita da un lavorio personale sulle domande che ci proponeva per prepararci agli incontri. In questo lavoro personale, seconda condizione ineludibile dell’incontro, voleva che giocassimo la nostra libertà di ragazzi e giovani. Proprio su questo aspetto, la sua diventava una provocazione così verticale da rendercelo, talvolta, quasi irraggiungibile. Da lui fin da giovani abbiamo imparato che la fede era profondamente ragionevole documentata dalla sua cultura, dalla conoscenza dei libri testamentari, ai grandi classici greci fino alla letteratura moderna, sua grande e mai sopita passione: una estesa cultura che ci trasmetteva appassionatamente

Don Rino era un uomo che faceva quel che diceva, senza compromessi o mezze misure. La sua non era una vita senza contraddizioni, ma una lotta estenuante, e in certi momenti per lui pesantissima, per la verità e il bene. Quando giocava a calcio con noi nel polveroso e ora piccolissimo campo di Madonna delle Rose, impetuosamente trascinava la squadra, incitava, rabbiosamente calciava con l’impeccabile calzettino alla caviglia e le stesse scarpe con cui faceva Messa. Così era anche nell’operosità durante le innumerevoli raccolte della carta e del ferro per tutte le strade del nostro quartiere, nella precisione con cui allestiva l’altare e seguiva la liturgia, sempre in tensione tra la bellezza del suo mandato e la nostra disattenzione. Curava con estrema attenzione i dettagli della Messa a partire dai canti, abituandoci a cantare con il fine di concentraci meglio sulla presenza di Gesù avendo attenzione per la bellezza della musica e delle parole. Con la stessa precisone curava le mitiche recite e rappresentazioni, momenti desiderati e ancora indimenticabili per noi ragazzi.

Don Rino era un uomo che ci voleva bene uno per uno e tutti insieme. Molto spesso i suoi incontri più significativi si svolgevano nella bellezza della natura. Ci educava insieme: alla fatica della vita, con il cammino in montagna; al dolore che presto o tardi ci avrebbe ferito, con il suo motto “originale e gioiosa accettazione degli imprevisti” per una pioggia all’aperto, un cambiamento di programma o un pasto non troppo abbondante e gustoso; alla bellezza della cima come metafora dell’incontro definitivo con il Padre. In un momento preciso del nostro percorso, almeno così mi parve, scoprì più profondamente la presenza di Maria, la Madonna, e, subito, ce la fece conoscere come mamma accogliente e facilitatrice della nostra scalata, come àncora di amicizia per chi minacciava di andarsene dalla compagnia e come consolazione nella solitudine. La solitudine gli fu compagna anche durante l’esperienza con noi. Avevamo sperimentato una grande onda di compagnia che ci aveva guidato ma soprattutto a lui, Dio non risparmiò soprattutto a lui l’abbandono, il giudizio negativo, l’incomunicabilità. In quegli anni si rifugiava in poche case di parrocchiani e amici per trovare un’oasi di familiarità e di pace. Allora tornava a essere il don Rino combattivo di sempre, il sagace pensatore e l’ironico facilitatore per problemi difficili.

Il don Rino degli ultimi anni vive l’eremitaggio in casa, in pieno centro a Cesena. Prega moltissimo. Offre a Dio il tempo, il disagio della solitudine (non ne parla mai) e poi la fatica della malattia: con fede e senza rassegnazione. Divora moltissima letteratura e si dedica a componimenti poetici e teatrali. Di questi ne è certamente orgoglioso ma con queste opere vuole rendere gloria alla presenza di Gesù perché altri possano vederla. Fino all’ultima ora, l’ho visto sempre obbediente alla sequela dei vescovi che si sono succeduti nel tempo, fedele ai sacramenti, ardente per la sua e nostra conversione. È sempre attentissimo nel giudizio culturale e politico ma anche alle vicende personali dei “suoi” ragazzi.

Don Rino, un grande uomo pieno di fede e di passione per la conversione dell’uomo.

Antonio Belluzzi

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Don Rino ha cominciato a frequentare il nostro gruppo scout nel 1982 ed è stato con noi per tanto tempo fino a che la salute glielo ha permesso, dopo il suo grave incidente, fino ai primi di marzo 2003.

Un primo aspetto che voglio sottolineare è proprio quello del tempo. Siamo stati assieme a don Rino tanto tempo e questo tempo condiviso ha permesso la nascita di un’amicizia, di una familiarità e di una condivisione stretta.

Il lavoro educativo con i ragazzi delle varie unità scout e il lavoro di formazione della comunità capi fatto, almeno inizialmente, con altri sacerdoti come don Lino Mancini e don Aurelio Zambelli, richiedeva incontri, campi estivi, uscite, attività al sabato e alla domenica, al venerdì sera con i capi.

Questa frequentazione assidua ha creato familiarità e ci ha dato la possibilità di addomesticarci a vicenda, di ammaestrarci a vicenda.

Don Rino si è adattato alla vita scout, forse tanto lontana da come era fatto lui e ne ha saputo cogliere le potenzialità e la bellezza aiutandoci a salire in alto e ad andare a fondo. Grazie a lui abbiamo scoperto la bellezza della misura alta della vita cristiana.

Sicuramente i tempi in cui abbiamo vissuto il nostro cammino con lui erano tempi particolari e il contesto ha aiutato il nostro percorso comune. Alcuni ragazzi delle unità erano anche suoi alunni e alcuni capi erano suoi colleghi presso la Scuola Magistrale Immacolata. Questo ha potenziato il lavoro educativo che, pur nella diversità di obiettivi, aveva un comune denominatore: la tensione al bene dei ragazzi. Grazie a un terreno fertile la semina di don Rino ha portato i suoi frutti fatti soprattutto di un fiorire di vocazioni alla vita familiare ma anche al sacerdozio o alla vita consacrata.

Un altro aspetto fondamentale è stato l’educazione alla preghiera e alla partecipazione fedele alla vita della diocesi. Per anni don Rino ci ha proposto la scuola di preghiera, la santa Messa al martedì, le veglie della pastorale giovanile durante l’Avvento o la Quaresima, la preghiera per le vocazioni al Suffragio. Ai campi di reparto aveva introdotto la presenza di una tenda dove ciascuno spontaneamente poteva trovare il luogo e il silenzio per un momento di preghiera personale o dove poteva incontrarlo per vivere la confessione.

A me, oltre a tanti ricordi personali, rimane la cura che metteva nella celebrazione eucaristica ai campi e alle routes con il suo immancabile poncho verde e due immagini: la vetta di una montagna e un pozzo. La vetta perché don Rino ci ha richiamato a vedere le cose dall’alto e il pozzo per andare sempre alla sorgente, al significato delle cose, e alla ricerca dell’acqua pura con cui abbeverarci.

Francesca Biribanti

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