Guerra Israele-Iran: Beersheva dopo l’attacco, parla il parroco don Kaminski

Attacco missilistico iraniano ieri contro la città israeliana di Beersheva, colpito l'ospedale Soroka. “Un atto di terrorismo. Un crimine di guerra del regime iraniano" ha tuonato Uriel Bosso, ministro della Salute di Israele

La gente corre nei rifugi, dopo che Israele si è scoperto sotto attacco. L’intervista con la guida della comunità cattolica

Colpito l’ospedale di Beersheva

Secondo l’esercito israeliano (Idf), sarebbero circa 30 i missili balistici lanciati nella mattinata di ieri dall’Iran verso Israele. Un missile ha colpito l’ospedale Soroka a Beersheva, nel sud di Israele, altri invece le città di Holon e Ramat Gan nel centro del Paese dove si registrano tre feriti gravi. Il missile caduto a Beersheva ha provocato ingenti danni all’area della chirurgia oltre che a edifici residenziali vicini. Il ministro della Salute israeliano, Uriel Bosso, ha commentato l’attacco all’ospedale affermando che si è trattato di “un atto di terrorismo e del superamento di una linea rossa. Un crimine di guerra del regime iraniano, deliberatamente commesso contro civili innocenti e contro équipe mediche impegnate a salvare vite umane”. Fonti militari iraniane, a loro volta, hanno riferito all’agenzia stampa Irna che gli obiettivi dell’ultimo bombardamento su Israele erano “un quartier generale dell’intelligence delle Idf e una base vicino all’ospedale di Soroka”. Nella città, nota anche come la capitale del Negev, vive una piccola comunità cattolica di espressione ebraica, che fa capo al Patriarcato latino di Gerusalemme, formata da ebrei e arabi israeliani, nonché da immigrati provenienti da Russia, Romania, Polonia e India. È presente anche un gruppo regolare di studenti di medicina stranieri che studiano all’Università Ben Gurion. A guidare la comunità è il parroco di origini polacche Roman Kaminski che racconta così, all’agenzia Sir, le ore dell’attacco.

Padre Kaminski, com’è stata vissuta l’esplosione in città?
Fino a ieri la nostra zona era rimasta tranquilla. Nonostante l’allerta dei mesi scorsi, non avevamo registrato impatti diretti. Proprio per questo una famiglia del centro di Israele aveva chiesto di venire a rifugiarsi in parrocchia: marito, moglie e un bimbo di tre anni. Poi, ieri mattina, la situazione è cambiata improvvisamente. Io ero fuori città, stavo accompagnando una signora polacca che tornava in patria con l’aiuto dell’ambasciata, passando per la Giordania. Il missile è caduto circa 40 minuti prima del mio rientro. Quando sono tornato, ho trovato la comunità molto scossa.

Che cosa è stato colpito esattamente?
Un razzo ha colpito l’area chirurgica dell’ospedale Soroka. Ma – grazie a Dio – quella sezione era stata evacuata il giorno prima. Possiamo dire che è stato un miracolo. I danni sono stati gravi, anche ad alcune abitazioni vicine, ma non ci sono state vittime. E nemmeno tra i nostri parrocchiani: ho telefonato a tutti, ho scritto a chi vive più vicino alle zone colpite, e stanno tutti bene.

Ci sono stati altri attacchi in città?
Nel pomeriggio sono caduti altri due razzi dentro Beersheva. Le autorità hanno detto che sono finiti in aree aperte, ma poi ho scoperto, parlando con i parrocchiani, che uno è caduto nel campo sportivo di una scuola e un altro in un parco. Erano missili meno potenti, per fortuna. A oggi non si registrano feriti in città. Ma resta la paura. Soprattutto per anziani e malati, che fanno più fatica a raggiungere i rifugi.

Cosa significa sentirsi improvvisamente indifesi in un Paese noto per la sua sicurezza?
È vero, Israele ha la fama di sapersi difendere. Ma trovarsi sotto attacco, senza difese immediate, genera una sensazione nuova. Per me è la prima volta in 26 anni che vivo qui. Ho sempre abitato in zone che non erano direttamente colpite. Ma gli israeliani sono abituati a tutto questo. Anche se non ‘suona bene’, è la verità. Io non lo ero, ma spiritualmente mi ero preparato. Sapevo che sarebbe potuto accadere.

Cosa cambia rispetto ai razzi lanciati da Gaza o dallo Yemen?
Questi sono missili balistici veri, con una potenza molto superiore. È un salto qualitativo. Ed è questo che impressiona di più. Ma, come sempre, la gente qui sa reagire. Le autorità ripetono continuamente di andare nei rifugi, e quasi tutti lo fanno. È ciò che salva la vita.

Quale risposta state dando, come comunità cattolica?
Quella della preghiera. Abbiamo ripreso il Rosario via Zoom e stiamo organizzando anche la Messa online in ebraico, come durante il Covid. È un modo per restare uniti, per sostenersi spiritualmente. Anche padre Piotr Zelazko, il vicario patriarcale per le comunità cattoliche di espressione ebraica ha invitato a riprendere forme di preghiera a distanza, soprattutto per proteggere i più anziani. È importante non perdere il contatto con Dio e tra di noi.

E voi sacerdoti, come state accompagnando le persone in queste ore?
Con la preghiera e con la presenza. Oggi, ad esempio, ho accompagnato una signora anziana dal medico: non poteva tornare a casa da sola. Sono piccoli gesti, ma fanno la differenza. È il nostro modo per dire: non siete soli. Speriamo solo che tutto finisca presto. Intanto continuiamo a pregare. Anche da qui.

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