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Gli Huthi: origini, evoluzioni e obiettivi strategici all’insegna del nuovo nazionalismo islamico

Le vicende mediorientali hanno portato alla ribalta i Partigiani di Dio (Ansar Allah), più noti come Huthi, il partito-milizia giunto a controllare un terzo dello Yemen, da cui minaccia la rotta del Mar Rosso

Afp/SIR

Le vicende mediorientali hanno portato alla ribalta i Partigiani di Dio (Ansar Allah), più noti come Huthi, il partito-milizia giunto a controllare un terzo dello Yemen, da cui minaccia la rotta del Mar Rosso. Dapprima concepito per inibire selettivamente i flussi diretti a Israele, l’ostruzionismo ora prende di mira i cargo collegati ai Paesi che solidarizzano con Tel Aviv, per estorcere l’impegno a costringere Netanyahu a porre fine al genocidio di Gaza. La reazione armata angloamericana non sembra avere intimidito gli yemeniti. Anzi, la militarizzazione del transito generalizza indiscriminatamente l’insicurezza per l’intero volume dei flussi da e verso Suez.

Per comprendere chi sono gli Huthi e cosa perseguono nella cornice della destabilizzazione mediorientale, conviene esaminarne origini, evoluzioni, opzioni tattiche e riconversioni strategiche. Con l’opportunità di trovare nel teatro yemenita l’ennesima incubazione di conflitti che, presto o tardi, trascendono il laboratorio locale di contese superiori, finendo per chiedere il conto a una più estesa platea di attori. Anche a quelli apparentemente estranei e “distratti”.

Il movimento prende nome dalla famiglia che ne sostenne la formazione. Segnatamente da Husayn al-Din al-Huthi considerato l’ideologo fondatore, fratello di Mohammad, di Abdel Malek e imparentato con altri esponenti del vertice politico e militare. L’iniziatore spirituale viene individuato nel padre Badr (morto nel 2010), che negli anni ’80 studente nell’Iran khomeinista. Nel 1992, nella provincia di Saada, Husayn fonda la Gioventù credente, al fine di promuovere, con scuole e campi estivi, lo zaydismo: corrente minoritaria dello sciismo, che con quella duodecimana dell’Iran condivide le pratiche liturgiche e la professata necessità dell’imamato (strettamente meritocratico anziché dinastico) alla guida dei fedeli, non senza importanti affinità giurisprudenziali anche con il sunnismo moderato. Il movimento acquistò presto connotazioni politiche, rivendicando l’autonomia della provincia e protestando contro le discriminazioni antisciite imputate al governo centrale di Saleh (ancorché di tribù zaydita), già presidente dello Yemen del Nord al momento dell’unificazione (1990) con lo Yemen del Sud.

I contrasti con Saleh giungono al parossismo nel 2003, in occasione dell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, pur sunnita e comunque leader di una dittatura laica informata all’ideologia social-nazionale del Partito Baath. Le proteste di piazza addebitano al governo filosaudita l’appoggio all’operazione, accusandolo inoltre di connivenze con i potentati occidentali intenti a predare il petrolio yemenita. Nella circostanza la Gioventù credente assume toni più marcatamente antimperialisti e antisionisti e al contempo inizia a invocare agende di giustizia minacciando la secessione della provincia zaydita. È la svolta con cui il movimento si affranca dall’impronta localistica, lanciando una visione di solidarietà panislamica traversale agli scismi infraconfessionali, coniugata con elementi del nazionalismo arabo e dell’irredentismo anticoloniale. L’avversione investe anche le petrolmonarchie: non perché sunnite, ma per le ingerenze nella sovranità yemenita, con l’accusa di curare per tornaconto regionale le strategie egemoniche degli Usa, al punto di supportare al-Qaeda, che la Gioventù credente vede come fattore di destabilizzazione diffuso ad arte per offrire a Washington il pretesto della guerra preventiva al terrorismo. La repressione governativa porta all’uccisione di Husayn avviando la risposta di una guerriglia di lunga durata.

Nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, i tumulti tornano agitare le strade: corruzione e sottosviluppo sono i capi d’accusa contro Saleh. Gli Huthi intercettano lo scontento e, assumendo una nuova denominazione (Ansar Allah) e struttura, si diffondono nel Paese. Siglano alleanze intertribali in vista di una piattaforma nazionale per spodestare il dittatore, uniformando il disordinato insurrezionalismo di piazza. Modello organizzativo è Hezbollah, con il decisivo sostegno di Teheran, che fornisce armamenti più sofisticati e addestra secondo tecniche di combattimento di livello superiore alla guerriglia. In particolare gli Huthi dimostrano l’efficacia della Forza al-Quds (che emblematicamente reca il terzo nome arabo della città santa di Gerusalemme), concepita dalle Guardie della Rivoluzione iraniane per sostenere i propri satelliti in un Medio Oriente consegnato all’instabilità con la stura data dalla seconda Guerra del Golfo.

Le accresciute capacità spingono il Consiglio di cooperazione del Golfo Persico – istituito nel 1981 in funzione anti-iraniana su impulso Usa e a guida saudita, comprendente anche Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Oman – a paventare la secessione del nord. Pertanto Riad induce Saleh a dimettersi, in vista di un governo di unità nazionale. Ma alla Conferenza del Dialogo nazionale gli Huthi respingono la proposta, boicottando le prime elezioni a suffragio universale del 2012. Le urne promuovono a presidente il candidato unico, il feldmaresciallo Hadi, vicepresidente dal 1994.Questi allontana gli alti funzionari fedeli al predecessore e riaccende gli scontri, contando sugli armamenti sauditi e sulle sezioni locali di al-Qaeda e Ansar al-Sharia, organizzate in milizia con il supporto dell’Isis, che impegnano i ribelli nelle roccaforti salafite del centro.

Si apre l’ultima fase della guerra civile convenzionalmente riconosciuta, che si avvia a definire gli assetti tuttora vigenti. Agli Huthi si uniscono i lealisti di Saleh, che contesta l’emarginazione impostagli dai sauditi. Con il loro aiuto, nel settembre 2014, viene raggiunta Sanaa, dove si instaura il Consiglio rivoluzionario per il governo dei territori occupati. Hadi ripara ad Aden, proclamata nuova capitale. Ma lo sfondamento a sud da parte degli Huthi prosegue fino a quando l’Arabia Saudita non decide di scendere in campo alla testa di una lega sunnita volta a ripristinare lo status quo ante, con l’aggiunta dei mercenari della Blackwater e l’appoggio esterno di Usa, Gran Bretagna, Turchia e Canada. Inizia così la sequenza dei bombardamenti che innalzano il picco delle vittime civili, provocando una crisi umanitaria che coinvolge tre milioni di sfollati afflitti da fame ed epidemie.

Nel 2017 si ha l’ultimo riposizionamento di Saleh, che si riavvicina a Riad e ordina ai suoi di attaccare le postazioni Huthi: l’ultima mossa prima di essere colpito a morte da un miliziano. Da allora gli Huthi hanno allargato ulteriormente il novero delle adesioni interne, collezionando ancora trasversalismi di varia fattura. Di conserva, si sono giovati di varie defezioni nel fronte di Hadi. Dalla lega sunnita, tra il 2017 e il 2019, si sfilano Marocco, Qatar ed Egitto. I socialisti del Movimento per lo Yemen del Sud, dopo lo strumentale appoggio al governo di Aden, recuperano l’indipendentismo originario, riscuotendo l’adesione dei lealisti di Saleh guidate dal nipote Tareq. E nel 2017 incassano il supporto degli Emirati Arabi Uniti, che mirano ad avere più leve da usare sui diversi tavoli di concorrenza con i sauditi. Arriviamo al 2022, quando l’Arabia Saudita sostituisce Hadi con una giunta incaricata di partecipare ai negoziati per la pacificazione, prefigurati dalla pur precaria tregua siglata in funzione della distensione tra Riad e Teheran avviata dalla Cina, con uno sguardo all’allargamento Brics lungo la strada del multipolarismo globale.

Nell’intricato quadro delle vicende yemenite si ricava la traiettoria dei Partigiani di Dio, movimento che, non senza autonoma iniziativa tattica, ha saputo capitalizzare l’indirizzo iraniano inteso di irradiare in Medio Oriente il connubio – un tempo impensabile – tra l’impronta laica delle lotte di liberazione nazionale, l’antimperialismo socialista arabo e solidarismo musulmano. All’insegna di un inedito nazionalismo islamico dotato di un’attrattiva ideologica alquanto differente dal salafismo dell’Isis, il cui concetto di califfato insiste su un confessionalismo assoluto, esclusivista e divisivo, da ultimo confermato dalla rivendicazione che si è intestata la strage di Kerman, condita di maledizioni contro gli infedeli sciiti (Iran in compagnia di Assad ed Hezbollah) e il tradimento dei sunniti palestinesi che ne accolgono il sostegno anteponendo la questione nazionale all’ortodossia religiosa.

I tragici fatti di Gaza stanno offrendo una preziosa opportunità agli Huthi che, vantando il contrasto a Israele e Usa, si accreditano nelle società arabe come paladini dell’antisionismo e dell’antimperialismo. Proprio la pressione di simile consenso, che si aggiunge ai danni di un blocco totale del Mar Rosso, spiega la perplessità saudita per la reazione armata angloamericana contro gli yemeniti. Molto probabilmente a Riad si è compreso di non avere più agio di contrastarli come in passato, avvertendo ancora di più l’esigenza di una normalizzazione.

Soprattutto si è capito che, finché si protrarranno le azioni israeliane nella Striscia, gli Huthi potranno guadagnare ulteriore peso politico.

Per farlo valere sul piano interno, nel compattare il sostegno nazionale alla loro leadership. E nondimeno sul tavolo dei negoziati internazionali cui si affida la fine della guerra civile yemenita, incancrenita da rivalità esogene che oggi, come ennesimo boomerang, fanno ricadere i loro effetti amplificati ben lontano dall’epicentro locale.

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Fonte: Sir
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