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Mese di maggio

La preghiera della sera chiamava a raccolta tra litanie in latino e Rosari, a volte sprint alla Madonna Greca

Mese di maggio

Maggio! Aveva ragione Leopardi quando nel canto “A Silvia” lo definì “odoroso”. Il mese, infatti, è un delizioso concerto di odori di tiglio e di glicine ai quali, in tempi lontani, si univa quello dell’olio bruciato perché a maggio, una volta, attraversavano la città le macchine della mitica “Mille Miglia” che sfrecciavano lungo la via di Roma proprio davanti alla basilica di Santa Maria in Porto dove da secoli è venerata la Madonna Greca nel cui santuario una volta, quando la gente non era distratta dalla televisione e dai mille impegni del quotidiano, trovava il tempo di recarsi in chiesa per la funzione serale del “Mese di maggio”, mese mariano per antonomasia.

Difficile dimenticare quelle sere quando noi chierichetti uscivamo di casa in anticipo sull’orario perché prima della funzione ci aspettava il “gioco del fazzoletto” guidato da don Luigi Busti. La sua veste nera si stagliava sul candore della facciata di Santa Maria ancora calda di sole e noi, divisi in due squadre, dovevamo conquistare il fazzoletto bianco che don Luigi sventolava. A volte il gioco sforava il tempo e allora bisognava correre in sacrestia, indossare in fretta la veste azzurra e la cotta e inginocchiarsi davanti alla sacra immagine per la recita del Rosario.

Ricordo che qualche volta, quando i nostri ritardi erano andati oltre il lecito, don Luigi aveva inventato il Rosario-sprint con il cambio dei misteri, annunciato dal campanello azionato dal “chierichetto di destra”, ogni sette “Avemaria”. Alla fine della settima “Ave”, infatti, don Luigi si rivolgeva al chierichetto dicendogli: “Taglia” e si passava al mistero successivo fra lo sconcerto delle pie donne che sedevano nelle prime file.

Ancor prima di essere arruolato nel corpo dei chierichetti di Santa Maria mi recavo al “mese di maggio” con la famiglia e per me era molto bello perché mia zia Quinta mi portava sulla cantoria dove don Spartaco Mannucci, santo parroco, sedeva all’organo e di lassù era veramente emozionante seguire la funzione con i chierichetti che suonavano il campanello e portavano il “velo” che indossava il celebrante per la benedizione con il Santissimo, mentre il turibolo sbuffava incenso a tutto spiano.

Ricordo le litanie mariane cantate in latino con i due cambi di tono (allo Speculum justitiae e all’Auxilium christianorum), il Tantum ergo e l’Adoro te devote… Ma oggi purtroppo la melodia del gregoriano è stata sostituita da discutibili traduzioni in italiano che sono, lasciatemelo dire, un insulto al buon gusto.

Tempi lontani, quando la carità della sera chiamava tutti a raccolta per la preghiera mariana alla quale non si doveva in nessun modo disertare. Al suono della campana (chi mai oggi dà più ascolto al suono delle campane?) nonna Faustina diceva “E prit l’à suné” e dopo aver preso dal cassetto il velo nero guidava la famiglia verso la chiesa.

A quei tempi l’icona di marmo della Madonna Greca era sistemata sopra l’altare maggiore in cima a una impalcatura di legno la cui stabilità sfidava le leggi fisiche della statica. Ho sempre pensato che a reggerla fosse la fede immensa di don Mannucci che ebbe il santo coraggio, nel 1952, di portar lassù per l’incoronazione solenne della Madonna Greca nientemeno che Ildefonso Schuster, il cardinale di Milano, che aveva fatto il suo ingresso in basilica con dietro di sé uno strascico rosso lungo come tutta la navata centrale. Nei miei ricordi olfattivi di bambino c’è ancora il fruscio di quello strascico. Don Luigi, don Mannucci, il cardinale… Rubo qualche riga a Marcel Proust: «il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimé, come gli anni» e, aggiungo io, come il ricordo di quei “mesi di maggio” lontani.

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