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Ogni cristiano è un micro-influencer ma guai a “vendere un prodotto”

La questione non è più se confrontarsi o meno con il mondo digitale, ma come farlo

Ogni cristiano è un micro-influencer ma guai a “vendere un prodotto”

“L’umanità ha fatto passi da gigante nell’era digitale, ma una delle questioni urgenti ancora da affrontare riguarda il modo in cui noi, come individui e come comunità ecclesiale, possiamo vivere nel mondo digitale come ‘prossimo amorevole’, autenticamente presenti e attenti l'uno all'altro nel nostro comune viaggio lungo le strade digitali”. Inizia così il documento che il Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede ha pubblicato lo scorso 28 maggio, solennità di Pentecoste.

Intitolato “Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media”, il testo porta la firma del prefetto dell’organismo vaticano, Paolo Ruffini. È la prima volta che un documento di questo livello viene siglato da un laico.

“La questione non è più se confrontarsi o meno con il mondo digitale, ma come farlo”. Attorno a questo punto si snoda il contenuto del testo, che spazia dalle insidie della Rete al “tessere relazioni” online, dal compito della testimonianza al valore della creatività.

Un ampio paragrafo è dedicato alla necessità di “costruire la comunità in un mondo frammentato”. Come farlo? Innanzi tutto, ricordando che “ogni cristiano è un micro-influencer”. Dobbiamo cioè essere consapevoli del valore del messaggio che cerchiamo di vivere e dell’effetto che il nostro modo di operare online ha sugli altri. “Lo stile cristiano deve essere riflessivo, non reattivo, anche sui social media”, scrive il Dicastero per la comunicazione. Dunque, serve cautela “nel postare e condividere contenuti che possono causare malintesi, esacerbare le divisioni, incitare al conflitto e approfondire i pregiudizi”.

L’invito è quello ad essere attivi e non spettatori passivi di ciò che propina il web, anche perché “i social media possono diventare un’opportunità per condividere storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza che sono fisicamente lontane da noi. Così facendo, potremo pregare insieme e cercare insieme il bene, riscoprendo ciò che ci unisce”.

Essere attivo sui social, per un credente, non si esaurisce però nel condividere frasi del magistero o riflessioni spirituali. “Questo non basta”, sottolinea il documento. Oltre a voler raggiungere gli altri con contenuti religiosi interessanti, “noi cristiani dovremmo essere conosciuti per la nostra disponibilità ad ascoltare, a discernere prima di agire, a trattare tutte le persone con rispetto”.

Non siamo presenti nei social media per “vendere un prodotto”, conclude il testo. Non si tratta di fare pubblicità a qualcosa, ma di comunicare la “vita buona” che nasce dalla fede.

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