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migrazioni e solidarietà

Il Mediterraneo come provocazione di fraternità, nelle storie delle seconde generazioni e dei pescatori di Mazara

Un altro mondo è possibile

Ines, Maures e Nadia

Negli occhi hanno i sogni dei giovani e, primo tra tutti, quello della fraternità. Nella loro storia, episodi di razzismo e pregiudizi. E nel cuore un costante lavoro di rielaborazione della loro identità. Sono i giovani di seconda generazione. Qui come a Mazara del Vallo, dove sono inseriti in un progetto di educazione, accompagnamento alla crescita e inserimento lavorativo che si chiama Comunità Casa Speranza delle suore missionarie salesiane. Alcuni giornalisti italiani del seminario Alfio Inserra della Fisc, Federazione Settimanali cattolici, li hanno incontrati ieri pomeriggio assieme alle mogli, madri e figlie dei pescatori mazaresi che sono stati sequestrati l’anno scorso in Libia per 107 giorni e per i quali si è alzata anche la voce autorevole di papa Francesco.

Hanno l’accento mazarese, questi giovani di origini tunisini e marocchini. Come in Romagna ce l’hanno romagnolo. E questo li rende così simili ai coetanei che a volte raccolgono gli sfoghi dei concittadini contro gli “stranieri”. “Una volta ero a fare delle analisi e alcuni si sono messi a parlare male dei tunisini con me. Io non ho parlato, non ho detto nulla: ero troppo delusa”, spiega Ines, che  studia a Firenze e ha deciso di portare il velo. “A me è successo con un professore, in prima liceo: mi ha detto chiaramente ‘Ma proprio qui dovevate venire?’. E io me ne sono andata”, aggiunge Nadia.

Nonostante questo, Maures il suo futuro lo vede qui, a Mazara: “I giovani se ne vanno tutti perché non c’è lavoro, ma io voglio crearlo, piuttosto che andarmene”. Già ha iniziato: è la presidente della cooperativa che gestisce il ristorante italo-tunisino Habibi (che in tunisino significa “Amore mio”), nel centro di Mazara, dove si mangia un fantastico cous cous. “La Tunisia non la conosco – aggiungo -. Quando vado mi sento straniera. D’altra parte siamo sempre stranieri, sia qui che là. Ma Mazara per me è casa”. 

È casa, è approdo sicuro anche per i pescatori, sia quelli di origini italiane che quelli stranieri. E in quei drammatici giorni del sequestro dell’anno scorso, tutta la comunità di Mazara si è fatta famiglia, per i pescatori, e per le loro famiglie. “Quando è successo abbiamo cercato di fare rete – spiega Giovanna Benigno, vice-economo della diocesi di Mazara del Vallo - per far fronte all’assenza delle istituzioni che hanno proposto un risarcimento solo dopo la liberazione. Anche qui a terra, c’erano esigenze concrete: le bollette da pagare, i libri da comprare, la spesa da fare (alcuni pescatori avevano con sé il bancomat, mentre le loro donne erano a terra). Come diocesi abbiamo contribuito con i fondi dell’8 per mille (oltre 30mila euro, ndr) e poi è arrivata la solidarietà da tantissimi cittadini qui e in tutta Italia”.

L’aspetto più difficile da vivere è ovviamente quello dell’ “attesa” che hanno tentato di raccontare Rosetta, Nuccia e Cristina. Rosetta, prima di tutto che in mare aveva già perso il marito e un figlio e, spiega, “questo figlio non lo volevo perdere”.

“Ogni ritorno per queste donne è Natale”, hanno spiegato per far capire cosa significa per una famiglia vivere costantemente senza mariti e padri che stanno in mare per periodi che vanno dai 45 ai 90 giorni. Ma, l’anno scorso proprio di questi tempi, pareva che Gesù non potesse più nascere in queste famiglie. “Cosa ci ha dato speranza? – spiega Cristina –. Dio è la nostra forza. E un senso di giustizia. Guai a chi ci tocca quel che ci appartiene, se siamo dalla parte giusta”.

Poi il ritorno, la festa, il sollievo. Ma non la giustizia: per il sequestro, lo Stato ha proposto alle famiglie 30 euro al giorno, “senza il sabato e la domenica”. Una pausa the-end da sequestro. Il sindacato, la Uila Pesca è insorto ma ancora la questione è aperta. Nelle menti e nella psiche di questi pescatori resta il ricordo dei giorni in Libia e soprattutto delle prigioni libiche. “Cosa possiamo fare per i giovani che restano lì?”, ha chiesto una delle figlie di questi pescatori a suor Alessandra che gestisce Casa comunità Speranza. Una sete di giustizia alla quale ancora, si può solo rispondere insieme.

“Le storie di questi ragazzi e di queste donne – chiosa Benigno – sono la dimostrazione che, come dice Francesco, nessuno si salva da solo”. 

E tornano in mente le parole dei relatori del convegno Fisc, in particolare quelle del presidente nazionale di Azione Cattolica Giuseppe Notarstefano: “Il pensiero ha bisogno di confrontarsi: ritrovare orizzonti di ricerca comune. È lì che il Mediterraneo diventa provocazione: con una concretezza disarmante: nel dialogo, nella discussione, nei conflitti. Dialogo è una cosa che costa fatica”.

“Un altro mondo è possibile. L’approdo della globalizzazione non dev’essere la frammentazione individualista e capitalista. Nessuno si può salvare da solo. Ecco perché risuonano le parole di La Pira e di altri profeti”. Una nuova sfida per la politica ma anche per la Chiesa, conclude Notarstefano: “Il Mediterraneo è anche il cammino sinodale. Ricominciare da questi poveri significa fare vera evangelizzazione. Stare con le persone, con quelli con cui è più difficile stare. È lì che la Chiesa si gioca la sua concretezza”.

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