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“La pandemia ci insegni a essere fratelli”. Il bilancio di Francesca Ghetti, medico specializzando

Non dimentichiamolo ora, nella fase 2. Non dividiamoci, non perdiamoci in polemiche: “Il fatto che ci sia mancata la terra sotto i piedi, deve farci cogliere la bellezza di vedersi, di andare a Messa insieme, di accompagnare le persone fino alla morte, di vedere nascere i bambini. E anche nella fede ci deve aiutare a scremare le cose davvero importanti”

“La pandemia ci insegni a essere fratelli”. Il bilancio di Francesca Ghetti, medico specializzando

Un altro modo per essere vicini. Oltre la distanza fisica necessaria, oltre i dpi. Pregare per i suoi pazienti: questo ha imparato Francesca Ghetti, giovane specializzanda in Radiologia oncologica e membro dell’Ufficio missionario della Diocesi di Ravenna-Cervia, nell’emergenza Coronavirus. L’avevamo lasciata all’ospedale di Parma dove ha iniziato la sua specializzazione e dove ha passato tre mesi di tirocinio senza mai tornare a casa per paura di contagiare i suoi cari. A fine maggio li ha potuti riabbracciare: anche perché gli ultimi mesi di tirocinio li passerà all’Irst di Meldola, sempre in radiologia. Il tempo giusto per un primo bilancio dell’esperienza in prima linea appena vissuta.

“Due aspetti mi hanno colpito tanto in questo periodo – spiega –. Anzitutto la richiesta del vescovo di Parma, Enrico Solmi, a noi medici di pregare per e con gli ammalati e di dare una benedizione ai moribondi: mi ha fatto pensare al ruolo che noi medici possiamo avere, a un modo diverso per essere loro vicini. L’ho fatto e ora continuerò a farlo: è stato importante e molto forte per me”. E poi quella frase, che ha sentito ripetere così tante volte dai pazienti: “’Ho sete’, mi dicevano tutti: e a me la mente correva subito alla Passione di Gesù, soprattutto durante la settimana Santa”.

Difficile distinguere lavoro e vita, in quei mesi di emergenza sanitaria, racconta: “Soprattutto per me che ero lontana da casa, i colleghi sono diventati un po’ una famiglia. L’affrontare paura e morte insieme ci ha aiutato a fare squadra”. Ma anche al di fuori del reparto, “la gratitudine da parte della città, dai pazienti e della città si sentiva. E aiutava ad alzarsi la mattina”. 

E anche i pazienti, in alcuni casi, sono stati esempi di fraternità per il medico ravennate: “Ricordo un ragazzo con la sindrome di Down: aveva davvero una brutta polmonite e abbiamo temuto che non ce la facesse, anche a sopportare la degenza in ospedale tutto da solo. E, invece, un signore accanto a lui se n’è preso cura: lo faceva ridere, lo teneva d’occhio. E alla fine è andato tutto bene”, racconta Francesca.

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