Editoriale
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Il distintivo e lo Stato

Sono cresciuto con l’idea dello statista, dell’uomo che, prima prestato alla politica, poi si dedica alla gestione della causa comune. Di tutti, nessuno escluso. Non solo di quelli che lo hanno eletto.

Il distintivo e lo Stato

Una volta c’erano le scuole di formazione dei partiti. Le ricordo anch’io. I giovani della Democrazia cristiana si ritrovavano sulla costiera amalfitana.

Prima di quella stagione, che qualcuno ancora menziona con non poca nostalgia, ci fu la generazione uscita dalla Seconda guerra mondiale. Arrivarono in Parlamento i cosiddetti professorini, gente del calibro di La Pira e Dossetti, Lazzati e Moro, solo per citarne alcuni. Loro furono i giovani chiamati a scrivere la Costituzione. Erano da poco usciti dall’università. Li conduceva, non sempre in maniera semplice, un certo Alcide De Gasperi, uno dei padri dell’Europa di cui oggi tutti noi godiamo i benefici, nonostante troppi ne parlino male.

Perché mi avventuro in questo revival? Non certo per andar per rimpianti. Tutt’altro. Vorrei, anzi, cercare di capire quali tempi stiamo vivendo. A volte, lo confesso, fatico nell’orientarmi. O perlomeno, non comprendo fino in fondo come si possa non indignarsi, non ribellarsi a una situazione che appare incredibile, quando non assurda.

Perché ho iniziato con quel ricordo di una stagione di uomini politici di grande statura? Ce ne erano in tutti gli schieramenti. Gente che poi ha scritto la storia del nostro Paese. L’ho fatto perché sono cresciuto con l’idea dello statista, dell’uomo che, prima prestato alla politica, poi si dedica alla gestione della causa comune. Di tutti, nessuno escluso. Non solo di quelli che lo hanno eletto. In questo senso e in questo modo ho sempre pensato a chi si spendeva per il bene del Paese.

Poi ci sono state le stagioni buie e nessuno se le nasconde. E ci mancherebbe altro. Tangentopoli e scandali di ogni genere. Arrivarono anche i tempi del partito-azienda, di chi trasferì i propri uomini più fidati nei posti chiave del governo. Ora siamo a una nuova stagione, per certi versi rinnovata, per altri forse ancora più difficile da decifrare.

Non comprendo come chi siede a guida dello Stato possa mostrare sulla giacca lo stemma del partito. Ci furono gli anni in cui i presidenti della Repubblica restituirono la tessera una volta eletti al Quirinale. Ora, invece, c’è chi ispira la propria azione esecutiva solo a quanto promesso in campagna elettorale o al contratto stipulato per arrivare a palazzo Chigi. Il distintivo e lo Stato assieme hanno elementi che stridono.

Lo sguardo dell’uomo di parte è concentrato sulle prossime elezioni. Quelle da vincere. Non sono io il solo a dirlo, ovviamente. Lo statista pone attenzione su ciò che potrà accadere tra 20-30 anni. Quanti avviarono prima la Ceca e poi la Cee ce lo hanno insegnato. Oggi, per tutti noi, non sarebbe male un buon ripasso di storia. Forse mi sbaglio?

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