Editoriale
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Oltre quel cielo

Ho sempre considerato la montagna come metafora della vita

Oltre quel cielo

La polemica dei giorni scorsi non mi interessa. Lo dico subito e non entro in argomento su quanto accaduto a livello mediatico.

Sulle croci poste in cima alle montagne mi sento di poter dire la mia, per almeno due motivi. Il primo è perché siamo in estate e a migliaia, da decenni, da parrocchie, associazioni e movimenti cattolici si va ancora sulle Dolomiti e sulle Alpi, ma anche sugli Appennini, con i campi scuola che da ragazzi quasi tutti abbiamo frequentato, credenti e non credenti. Il secondo motivo è legato a una passione personale per le cime, le ferrate, i ghiacciai. Li ho percorsi in 50 anni di frequentazione, da quel primo campo diocesano per i ragazzi delle medie a Pera di Fassa nel 1973, in Trentino. Da lì è proseguito un legame che mai si è interrotto, fino a oggi.

Salire in cima a una montagna è un’esperienza che se uno non ha mai provato non può giudicare. Arrivare in vetta al Cevedale, al Vioz, al Gran Paradiso, alla Marmolada, agli oltre 4.500 metri della capanna Margherita sul Monte Rosa, solo per citare alcune salite famose fra le tante su cui sono giunto in compagnia spesso di mia moglie o di amici fidati, non è mai un fatto banale. Così come quando si arriva a un rifugio di alta quota dopo aver scarpinato per ore e ore su sentieri ripidi, in silenzio, con lo sguardo basso per non inciampare, che ogni tanto si alza e scruta l’orizzonte all’insù, per vedere quanto manca alla meta.

Ho sempre considerato la montagna come metafora della vita. Prima di tutto per me, poi per tutti quelli che negli anni, giovani e meno giovani, ho portato in luoghi che tanti neppure avrebbero immaginato. Salire a piedi è faticoso ma appagante, proprio come accade a ciascuno di noi quando si confronta con le difficoltà della vita e di ogni giorno. Come ogni mattino, in montagna è sempre un’esperienza nuova, anche se si torna negli stessi luoghi, si vedono le stesse rocce, le stesse croci.

Sulla cima dell’Antermoia, nel gruppo del Catinaccio, in val di Fassa, a tremila metri di quota, dopo una ferrata non difficile, c’è una croce in ferro riempita di sassi. Non ricordo più quante volte sono arrivato su quella cresta. So per certo che il primo pensiero è sempre stato un grazie, lo stesso che ripeto ogni mattino assieme a un rapido segno di croce. Quando uno arriva lassù e intravede la croce che quasi congiunge cielo e terra, non può fare altro che alzare lo sguardo e pensare a cosa potrebbe esserci oltre quel cielo.

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