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Alla fede e alla carità serve la cultura

Assemblea Cei. Appunti a margine dell’introduzione del cardinale Matteo Zuppi

Lo scorso 22 maggio il cardinale Matteo Maria Zuppi ha aperto l’assemblea generale dei vescovi italiani con un discorso davvero importante, che contiene affermazioni meritevoli di essere riprese e considerate.

Dice a un certo punto il presidente della Cei: «C’è una cultura di pace tra la gente da generare e fortificare. Del resto la cultura della pace è un capitolo decisivo della cultura della vita, che trae ispirazione dalla fede. Giovanni Paolo II diceva una cosa molto coraggiosa: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Siamo in un tempo emozionale e soggettivo che rivela e accentua processi di deculturazione: tutto diventa fluido, anche quello che ieri sarebbe stato impensabile. Cadono saldi riferimenti, mentre ci si esalta (e poi ci si deprime) nella drammatica vertigine della soggettività dell’io isolato, cui sembra che tutto parta da lui. La fede crea una cultura della vita attraverso esistenze e pensieri impregnati di essa. La fede e la carità – scriveva un sapiente uomo di cultura, scomparso da parecchi anni, monsignor Pietro Rossano – hanno bisogno “della cultura, e già per esprimersi, affermarsi, scendere nell’esistente e sprigionare le loro valenze esistenziali”. Quando non avviene, è grande il rischio di ridursi a intimismo, assistenzialismo o semplicemente a vivere fuori dalla storia».

Tali affermazioni e l’insistenza sulla cultura rischiano però di passare inosservate, specie nel profluvio comunicativo che rende tutto indistinto: per di più, nella quotidianità delle molte incombenze routinarie ne fa spesso le spese proprio la lettura, attenta e meditata, che però è il primo mattone dell’edificio culturale, fede compresa, e non solo perché sta alla base della comprensione della Sacra Scrittura.

Appena due giorni dopo la relazione di Zuppi, su Avvenire Silvano Petrosino, docente di Antropologia filosofica alla Cattolica di Milano, coglie in quel testo il sapore della sfida e un grido d’allarme.

Per costruire una fondamentale e indispensabile cultura occorrono, dice, tre condizioni: il tempo, la libertà, la valorizzazione di chi nella cultura opera. Bisogna «credere nella cultura e in chi la fa, investire. Occorre cercare, scoprire e valorizzare anche gli studiosi che lavorano alla larga da Tv e social media».

La questione culturale è forse oggi la più rilevante, anche se nel clima leggero e vacuo del nostro tempo tutto sembra congiurare contro di essa: vale per la cultura nel suo livello primario, considerata la dilagante ignoranza. Vale per la fede, se vogliamo ridare volto al popolo cristiano e voce all’umanesimo cristiano; vale per la Chiesa e per l’Europa, se intendono riscoprire missione e autentiche radici, allontanare buie prospettive e risorgere con nuove persone e rinnovate strutture.

Non saranno certo il denaro e il potere a cambiare l’uomo per migliorarlo e aiutarlo a vedere ciò che vale e conta, mutando la vita propria e altrui. La fede, divenendo cultura, agisce inevitabilmente in tutti gli aspetti dell’esistenza, contagia ciascuna tipologia d’incontro, muta persino le modalità del vivere, del pensare, del vedere, dell’agire umano.

Un grande Padre della Chiesa, Giovanni Crisostomo (sec. IV), ammoniva: «Per questo spieghiamo le Scritture, non perché soltanto comprendiate le Scritture, ma perché riformiate anche i costumi. Se ciò non avviene, invano leggiamo, invano interpretiamo » (Omelie sull’oscurità delle profezie, 2, 7).

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