Dalla Chiesa
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intervista

Cristiani in Turchia, la vera sfida è quella dell'integrazione

A colloquio con monsignor Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell'Anatolia e presidente di Caritas Turchia

Monsignor Paolo Bizzeti e Alessandro Rondoni

«La situazione della minoranza cristiana in Turchia presenta vari aspetti. Ci sono da sempre comunità di cristiani (latini, cattolici, ortodossi, siriaci, ecc...), che hanno una vita paragonabile a quella dei cristiani qui in Italia: parrocchie, iniziative, sacramenti... La novità è che abbiamo moltissimi rifugiati cristiani provenienti dall’Iraq, ovviamente dalla Siria, ma anche dall’Iran, dall’Afghanistan e dall’Africa. Sono cristiani che vengono in Turchia perché fuggono dalla guerra o perché sono alla ricerca di Gesù Cristo».

Lo afferma il vescovo Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente di Caritas Turchia, che abbiamo incontrato per “Bologna7” e “12 Porte” nei giorni scorsi quando è stato a Bologna, accolto dall’arcivescovo Matteo Zuppi. «Soprattutto quelli che vengono dall’Afghanistan e dall’Iran - prosegue monsignor Bizzeti - lo fanno per una ricerca religiosa. Grazie anche al buon lavoro che in questi Paesi stanno facendo i missionari protestanti, arrivano persone in cerca di Cristo, che vogliono fare un cammino di catecumenato, oppure già battezzate e desiderose di approfondire la fede. Perché in Turchia, rispetto all’Iran, all’Afghanistan e ad altri paesi, si può coltivare la propria fede, non vi sono difficoltà. Queste persone sono già in numero superiore ai cristiani locali. Se oggi, infatti, i cristiani in Turchia sono circa lo 0.2% della popolazione, più della metà è composta da questi “nuovi cristiani”, oppure da cristiani che provengono dai Paesi in cui c’è la guerra. 

Questi cristiani hanno problemi diversi dai cristiani locali?

Sì, e la sfida è quella dell’integrazione, di garantire loro una formazione e la possibilità di approfondire la loro fede perché sono dispersi sul territorio, in luoghi in cui la chiesa più vicina è a varie ore di auto. Siccome non c’è possibilità di costruire nuove chiese, centri culturali o scuole, la nostra sfida è organizzare un servizio pastorale nella linea di quanto scritto negli Atti degli Apostoli: qualcuno che gira nelle comunità, fa incontri, amministra i sacramenti. Abbiamo quindi bisogno di persone e di risorse, perché radunare la gente, affittare una sala dove celebrare, tutto questo ha dei costi, anche  per gli operatori pastorali. Purtroppo la nostra Chiesa latina in Turchia, soprattutto il vicariato di Anatolia, non ha nessuna risorsa, e dipendiamo molto dall’estero.

Naturalmente avete diverse esigenze da affrontare. Quali?

Le problematiche che da tempo viviamo sono molto interessanti anche perché anticipano quelle che ora arrivano in Europa e in Italia: il rapporto con l’Islam e con una società che si sta secolarizzando fortemente. Si dice, ad esempio, che la Turchia è un Paese musulmano, ma molti turchi non vanno mai in moschea e c’è un forte agnosticismo. È un Paese molto giovane, il 50% della popolazione ha meno di 27 anni, vivace, che vuole “sfondare” sulla scena mondiale. Ma è anche in cerca di senso, di valori che la società tradizionale anche lì non riesce più ad offrire. Abbiamo pure musulmani che vengono a chiedere qual è la novità del Cristianesimo e a volte sono persone che pregano, fanno l’elemosina ai poveri, e sono anche moralmente serie. Evidentemente tutto questo non basta ad alcuni per dare un senso alla vita. Qual è, dunque, la novità del Cristianesimo rispetto ad una religiosità già di buon livello? Francamente anche l’accoglienza che la Turchia ha fatto nei confronti dei rifugiati è encomiabile, ne abbiamo infatti 4 milioni. La città in cui vivo, Alessandretta, ha 180.000 abitanti e 40.000 rifugiati: una cosa che in Italia sarebbe inconcepibile. E la gente li ha accolti.

Lei ha fatto un appello a costruire una «Chiesa di relazioni» per rafforzare la comunità cristiana, invitando anche ad «andare a vedere»

In giugno, ad esempio, abbiamo avuto la visita di una decina di Vescovi toscani che sono rimasti molto colpiti dalla vivacità delle problematiche con cui siamo quotidianamente a confronto. Ci confrontiamo con piccolissimi numeri, però toccano dei gangli interessanti in Medio Oriente ma anche in Italia. Per questo la croce episcopale che ho scelto - è di legno e coi tempi che viviamo ritengo sia  già una scelta significativa - è fatta ad intreccio per simboleggiare quello tra Oriente e Occidente, e in particolare tra Medio Oriente ed Europa. Tra queste due zone si è creata una barriera molto forte, una specie di “cortina di ferro”, anche religiosa; invece non solo il Medio Oriente è la culla del Cristianesimo, non solo quello che è avvenuto lì nei primi secoli ha ancora molto da dire al Cristianesimo di oggi, ma c’è anche la possibilità di un interscambio fecondo, dei laboratori di vita. Non soltanto convegni, ma incontri, relazioni, passando alcuni giorni, trascorrendo vacanze insieme, confrontando esperienze.

Lei è responsabile anche della Caritas locale e del progetto Cei “Liberi di partire, liberi di restare”. Come state operando?

Noi abbiamo delle emergenze, perché con quello con cui qui si aiuta una persone là se ne aiutano cinque. Inoltre, aiutando i rifugiati in Turchia, queste persone restano vicine alla loro patria in una cultura che non è così differente da quella dei Paesi da cui provengono. Il sostegno materiale è essenziale perché, ad esempio, i rifugiati iracheni che sono più di mezzo milione (e ci sono moltissimi cristiani) non possono lavorare in Turchia. I giovani se non hanno un titolo di studio, e molti l’hanno perso perché le loro scuole sono distrutte, non possono studiare. Cosa fanno? Sono alla mercé di tutti. Noi dobbiamo sostenerli, è un dovere primario. Anche perché loro sognano di venire in Occidente, ma le nostre porte sono chiuse. Bisogna quindi aiutarli lì.

La presenza delle imprese italiane che vanno ancora a investire in Turchia aiuta la vostra realtà?

L’industria italiana ha una presenza molto forte in Turchia: 1110 aziende, che però pensano soltanto ai loro interessi economici. Mentre un’industria turca all’estero si preoccupa di dare un’assistenza religiosa ai propri dipendenti, come facevamo anche noi un tempo, ad oggi le industrie italiane in Turchia non sono interessate a questo.

Qual è oggi, a distanza di anni, l’insegnamento di don Andrea Santoro, del suo sangue versato per la missione in Turchia?

È un germe che va coltivato. Nella Chiesa di Turchia è molto presente l’esempio di don Andrea che dà coraggio e forza. In Italia mi sembra che sia già passato l’interesse verso don Andrea, ma anche verso mons. Luigi Padovese, il mio predecessore, anch'egli ucciso. Anche qui si tratterebbe di svegliare le coscienze e dire: abbiamo dei confratelli che sono andati là e hanno dato la vita, cosa sta succedendo? Tutto questo, poi, dovrebbe trasformarsi in un’azione culturale e politica, perché la Chiesa vive dentro una società. È poi ancora irrisolto il problema di avere un riconoscimento giuridico: non lo abbiamo neppure come Caritas. Abbiamo creato una Fondazione, ma non è uno strumento del tutto adatto. Tutto è ancora regolato dal Trattato di Losanna del 1923 che andrebbe quantomeno aggiornato. Lo ha detto anche il presidente Erdogan. 

Lei ha un lungo rapporto con Bologna, dove è stato per molti anni. Cosa vede quando torna qui?

Vedo una società e una Chiesa molto ripiegate su se stesse, nonostante tantissime persone buone e molte iniziative. Si respira un’aria un po’ provinciale. In Turchia siamo continuamente in un intreccio a livello mondiale, perché tutte le grandi potenze stanno interagendo con il Paese: abbiamo persone che vengono dal Nord, dal Sud, dall’Est. C’è un clima in cui l’internazionalità è una dimensione fortemente sentita. In Italia, invece, sembra che ci stiamo chiudendo nel nostro ghetto. Amo molto l’Italia, un paese unico per tanti aspetti, però a volte “mi manca un po’ l’aria”. Mi sembra che si parli molto di cose che sono già superate dalla storia; inoltre l’invecchiamento della popolazione e la mancata creazione di posti di lavoro per i giovani, sono problemi seri Anche a livello ecclesiale mi sembra si sia molto soffocati dal portare avanti l’esistente e manca slancio nella nuova evangelizzazione e nell’apertura alla missionarietà, che un tempo ci caratterizzava e ci metteva a contatto con popoli e culture diversi.

Lei è un uomo di costruzione di legami, di ponti, ma anche un uomo
“di minoranza”. Cosa vuol dire essere minoranza come cristiani nella realtà di oggi?

Non dobbiamo avere paura di essere minoranza, dobbiamo preoccuparci di essere significativi. Quando mi chiedono quanti cristiani ci sono nella mia diocesi, a volte un po’ per ridere, un po’ sul serio, rispondo: «Troppi». Nei tempi iniziali della comunità cristiana, infatti, erano meno, ma hanno fatto di più, avevano più slancio e più creatività. Il problema quindi non è la quantità, ma avere cristiani laici preparati, preti che non siano soltanto oberati dalla gestione liturgico sacramentale e che pensino, finalmente, a una nuova evangelizzazione. Se non siamo attraenti è difficile che la gente continui a venire. Mosè, racconta l’Antico Testamento, si avvicinò al roveto ardente: perché? Perché era qualcosa di attraente. Il Signore cerca di attrarre con qualcosa di nuovo che tocca le persone in ricerca. Se noi non siamo capaci di colpire l’attenzione con uno stile di vita nuovo, con una proposta significativa sul senso della vita, restiamo una piccola minoranza che sopravvivrà certamente, ma un po’ a livello di ghetto. E non appartiene all’identità cristiana essere ghetto. 

La Turchia, ci ha appena ricordato, è culla del Cristianesimo, quindi avete un deposito di fede che va rinnovato. Qual è il messaggio di speranza?

Grazie a Dio vedo che la Chiesa siriaca, quelle bizantina ed armena, la nostra, tutti stiamo facendo uno sforzo di rinnovamento. Soprattutto nella Chiesa siriaca stanno riprendendo vita alcuni monasteri con giovani monaci; alcuni sono figli di perseguitati in Turchia di una o due generazioni fa che ritornano nella terra dei padri. Sarebbe bello che qualcuno dall’Europa venisse per realizzare una presenza orante viva, ad esempio di tipo monastico. In Turchia non abbiamo nemmeno un monastero di vita contemplativa e la Conferenza episcopale ne desidera molto uno. I monasteri, tra l’altro, sono accettati dalla gente e rispettati dal mondo musulmano: si ha grande rispetto per le persone che pregano in modo disinteressato e non fanno proselitismo. Le strade, quindi, sono tante.

La sua presenza qui, pertanto, è anche un invito a venire in Turchia, a incontrare le comunità cristiane?

Abbiamo fiducia e siamo contenti di essere cristiani: una cosa che qui non si sente più tanto. Si dà per scontata. Invece, anche a molti pellegrini che faccio incontrare con i cristiani locali, dico: qui sono contenti di essere cristiani e non hanno paura dell’Islam. Per vincere le paure, quindi, invitiamo chi legge a venire ad incontrare le comunità cristiane in Turchia.

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