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Papa Francesco in Ungheria/10. Al mondo accademico: "Chi ama la cultura, ricerca, interroga, rischia ed esplora"

E parla di sana inquietudine e di "un nuovo umanitarismo che annulla le differenze. Quanti individui isolati, molto social e poco sociali"

Un'immagine dell'incontro di oggi all'università cattolica "Pazmany"

Papa Francesco e la cultura. Il mondo della cultura. Nell'ultimo incontro di questo breve e intenso viaggio, Bergoglio si è confrontato con gli accademici dell'università cattolica intitolata allo studioso Peter Pazmany e fondata nel 1635, davanti a una platea di circa 250 persone. Al Papa uno studente dona un tendine bionico. 

"Il Sapere comporta una semina quotidiana che, immergendosi della realtà, porta frutto", dice il Papa in apertura di discorso.

Poi ricorda il filosofo Romano Guardini che, aggiunge Francesco, non demonizza la tecnica, che permette di vivere meglio, di comunicare e avere molti vantaggi, ma avverte il rischio che essa diventi regolatrice, se non dominatrice, della vita.

Guardini, aggiunge il Papa, "lasciava ai posteri una domanda inquietante: «Cosa ne sarà della vita se essa finirà sotto questo giogo? [...] Cosa accadrà […] quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita, ormai, è inquadrata in un sistema di macchine. […] In un tale sistema, la vita può rimanere vivente?»

"La vita può rimanere vivente? - si chiede il Papa -. È una questione che, specialmente in questo luogo, dove si approfondiscono l’informatica e le “scienze bioniche”, è bene porsi. Infatti, quanto intravisto da Guardini appare evidente ai nostri giorni: pensiamo alla crisi ecologica, con la natura che sta semplicemente reagendo all’uso strumentale che ne abbiamo fatto. Pensiamo alla mancanza di limiti, alla logica del “si può fare dunque è lecito”. Pensiamo anche alla volontà di mettere al centro di tutto non la persona e le sue relazioni, ma l’individuo centrato sui propri bisogni, avido di guadagnare e vorace di afferrare la realtà. E pensiamo di conseguenza all’erosione dei legami comunitari, per cui la solitudine e la paura, da condizioni esistenziali, paiono tramutarsi in condizioni sociali. Quanti individui isolati, molto “social” e poco sociali, ricorrono, come in un circolo vizioso, alle consolazioni della tecnica come a riempitivi del vuoto che avvertono, correndo in modo ancora più frenetico mentre, succubi di un capitalismo selvaggio, sentono come più dolorose le proprie debolezze, in una società dove la velocità esteriore va di pari passo con la fragilità interiore".

Dicendo ciò non voglio ingenerare pessimismo – sarebbe contrario alla fede che ho la gioia di professare – ma riflettere su questa “tracotanza di essere e di avere”, che già agli albori della cultura europea Omero vedeva come minacciosa e che il paradigma tecnocratico esaspera, con un certo uso degli algoritmi che può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano.

Poi cita un romanzo, Il padrone del mondo, di Robert Benson, per parlare di "un nuovo umanitarismo che annulla le differenze, azzerando le vite dei popoli e abolendo le religioni. Ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente; l’uomo, a contatto con le macchine, si appiattisce sempre di più".

È vero: i grandi intellettuali, infatti, sono umili. Il mistero della vita, d’altronde, si svela a chi sa entrare nelle piccole cose. È bello in proposito quanto ci ha detto Dorottya: «Scoprendo sempre più piccoli dettagli ci immergiamo nella complessità dell’opera di Dio». Così intesa, la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano. Immerge nella contemplazione e plasma persone che non sono in balia delle mode del momento, ma ben radicate nella realtà delle cose. E che, umili discepole del sapere, sentono di dover essere aperte e comunicative, mai rigide e combattive. Chi ama la cultura, infatti, non si sente mai arrivato e a posto, ma porta in sé una sana inquietudine. Ricerca, interroga, rischia ed esplora; sa uscire dalle proprie certezze per avventurarsi con umiltà nel mistero della vita, che si sposa con l’inquietudine, non con l’abitudine; che si apre alle altre culture e avverte il bisogno di condividere il sapere. Questo è lo spirito dell’università, e vi ringrazio perché lo vivete così, come ci ha detto il Professor Major, il quale ha raccontato la bellezza di cooperare con altre realtà educative, attraverso programmi di ricerca condivisi e anche accogliendo studenti provenienti da altre regioni del mondo, come il Medio Oriente, in particolare dalla martoriata Siria. È aprendosi agli altri che si conosce meglio sé stessi.

La cultura ci accompagna a conoscere noi stessi. Lo ricorda il pensiero classico, che non deve mai tramontare. Vengono alla mente le celebri parole dell’oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». È una delle due frasi-guida che vorrei lasciarvi in conclusione. Ma che cosa significa conosci te stesso? Vuol dire saper riconoscere i propri limiti e, di conseguenza, arginare la propria presunzione di autosufficienza. Ci fa bene, perché è anzitutto riconoscendoci creature che diventiamo creativi, immergendoci nel mondo anziché dominandolo. E mentre il pensiero tecnocratico insegue un progresso che non ammette limiti, l’uomo reale è fatto anche di fragilità, ed è spesso proprio lì che comprende di essere dipendente da Dio e connesso con gli altri e con il creato. La frase dell’oracolo di Delfi invita dunque a una conoscenza che, partendo dall’umiltà del limite, scopre le proprie meravigliose potenzialità, che vanno ben oltre quelle della tecnica. Conoscere sé stessi, in altre parole, chiede di tenere insieme, in una dialettica virtuosa, la fragilità e la grandezza dell’uomo. Dallo stupore di questo contrasto sorge la cultura: mai appagata e sempre in ricerca, inquieta e comunitaria, disciplinata nella sua finitezza e aperta all’assoluto. Vi auguro di coltivare questa appassionante scoperta della verità!

La seconda frase-guida si riferisce proprio alla verità. È di Gesù Cristo, che disse: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). L’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà. E anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà; quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. Quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo! Da una libertà frenata a una libertà senza freni. Invece Gesù offre una via d’uscita, dicendo che è vero ciò che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure. La chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo. È questo che le Università sono chiamate a coltivare e la fede ad alimentare. Auguro dunque a questa e ad ogni Università di essere un centro di universalità e di libertà, un cantiere fecondo di umanesimo, un laboratorio di speranza. Vi benedico di cuore e vi ringrazio per quanto fate: Köszönöm szépen! (grazie tante, in ungherese, ndr).

università cattolica.esterno.30.4.2023
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Papa Francesco in Ungheria/10. Al mondo accademico: "Chi ama la cultura, ricerca, interroga, rischia ed esplora"
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