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Riforma del premierato Un film già visto?

Parlamento depotenziato e Presidente Repubblica non più garante dell’equilibrio complessivo tra poteri

L’aula di palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica (foto Agensir)

«Il presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere...». Mi pare questo il nucleo centrale della proposta di riforma della Costituzione proposto dal Governo Meloni e che andrebbe a modificare tra le altre cose l’art. 92, prevedendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una maggioranza sicura in Parlamento a sostegno del Governo. Non sono certamente un costituzionalista ma ricordo abbastanza bene l’esito dei precedenti tentativi di modifica costituzionale con la devolution proposta dalla Lega nel 2006 o con quello di Matteo Renzi nel 2016. Furono passaggi travagliati e divisivi che non portarono particolare consenso ai leader in carica. L’accattivante messaggio di evitare ribaltoni e dare stabilità all’Italia passerebbe per una scelta che va decisamente a modificare l’equilibrio del nostro sistema politico-istituzionale.

Il Parlamento verrebbe ulteriormente depotenziato, e il Presidente della Repubblica non sarebbe più il garante dell’equilibrio complessivo tra poteri. È già da tempo che le assemblee elettive in Italia appaiono indebolite da governi forti che approvano leggi ricorrendo a questioni di fiducia o approvando leggi di Bilancio grazie a maxi emendamenti a dir poco “opachi”. Può una riforma costituzionale come questa evitare questa tendenza e il passaggio di parlamentari da una parte all’altra del proprio schieramento?

La scarsa partecipazione dei cittadini alle elezioni potrebbe determinare il risultato di un presidente del Consiglio forte eletto da un terzo dell’elettorato avente diritto.

È uno scenario desiderabile? La scarsa partecipazione dei cittadini sembra essere piuttosto il frutto di un sempre più debole ruolo dei partiti. Questo consistente premio di maggioranza ipotizzato è stato tra l’altro già fortemente criticato dalla Corte Costituzionale e meriterebbe una seria analisi, se è vero che i cittadini dovrebbero sempre poter contare su «un presidente del Consiglio di tutti».

Con i problemi che stanno caratterizzando la legislatura in politica estera, associata ad una congiuntura economica sfavorevole, il metodo che caratterizza questa proposta sembra più che altro volto a contemperare le tensioni all’interno della maggioranza di governo, in qualche modo certificate da Giorgia Meloni: «L’Autonomia differenziata cammina di pari passo con il premierato, le due cose si tengono insieme. Oggi il grande vulnus è dato dal fatto che le regioni hanno un’autorevolezza e una stabilità che mancano al governo centrale, perché il presidente del Consiglio non è eletto direttamente». Come a dire che bisogna tenere assieme la spinta per rivedere il potere delle regioni in materia di autonomia legislativa ed economica (tanto cara alla lega di Salvini) con il premierato proposto da Fratelli d’Italia.

L’augurio che si può fare a questo governo è quello di tenere presente in questa decisione l’orizzonte del bene comune, che il Compendio della dottrina sociale della Chiesa al n. 169 ci ricorda con chiarezza: «… nello Stato democratico, in cui le decisioni sono solitamente assunte a maggioranza dai rappresentanti della volontà popolare, coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti ad interpretare il bene comune del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza…».

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